Brevi interviste con uomini schifosi – David Foster Wallace

Brevi interviste (Wallace)

Un bambino in piscina fissa il trampolino altissimo dall’altra parte della vasca. Vorrebbe salirci e tuffarsi, ma è trattenuto dalla paura. Decide di andare. La lenta salita verso la vetta è un racconto di infinita bellezza fatto di dettagli minuziosi, immagini vivide. Una macchia di luce sta per stagliarsi su una giornata che profuma di pubertà: il bambino oggi compie tredici anni. La scaletta di metallo vibra sotto i piedi umidi dei bagnanti in ascesa. I raggi del sole sferzano, rischiarandole, le fantasie dei costumi e degli ombrelloni osservati dall’alto.  I corpi abbronzati, sdraiati ai bordi della vasca, sembrano spegnersi nel tepore del primo pomeriggio. L’odore di cloro si incanala nelle narici del lettore. Le goccioline d’acqua sulla lingua di plastica bianca che oscilla su in cima è il solo refrigerio possibile per chi è ormai lontano dal rettangolino azzurro. Finalmente tocca a lui, al bambino. C’è silenzio. Tutto rallenta: i pensieri, la spinta del vento, le voci di chi alle sue spalle attende impaziente di lanciarsi nel vuoto. Per sempre lassù è uno dei racconti che compongono Brevi interviste con uomini schifosi, l’inquietante galleria di personaggi depravati e odiosi raccolti da David Foster Wallace in un libro che ha come tema dominante la misoginia. Siamo nel 1999 e Wallace ha all’attivo almeno tre libri pazzeschi: La scopa del sistema – la vertiginosa rielaborazione della tesi di laurea in filosofia che alla fine degli ‘80 lo fa debuttare a ruota di altri due giovani autori interessanti: Jay McInerney (1984) e Bret Easton Ellis (1985) – La ragazza dai capelli strani, la raccolta di novelle che lo consacra tra gli astri nascenti della letteratura americana, e Infinite jest, il romanzone di oltre mille pagine sulla dipendenza, ambientato nel mondo del tennis. Brevi interviste  è un virtuoso e originale esercizio di stile di fronte al quale qualunque scrittore farebbe bene ad interrogarsi sulle proprie reali capacità di intrattenimento. Dal figlio depresso e umiliato dai genitori divorziati che litigano per le spese odontoiatriche, al focomelico che sfrutta il suo braccio da lattante per commuovere e portarsi a letto le ragazze, la carrellata comica e graffiante degli strani tipi di Wallace – un’umanità indegna e delirante che senza nessun pudore esibisce tic e perversioni inconfessabili – mette i brividi per la potenza della scrittura e la grottesca brutalità delle trame, a volte assurde, quasi respingenti. Se non avete mai letto nulla di David Foster Wallace potreste iniziare proprio da questa raccolta.

Angelo Cennamo

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IL RE PALLIDO – David Foster Wallace

DAVID FOSTER WALLACE  Ritratto bianco e nero

   

“Raccontare l’apatia con garbo ed umorismo. La sconfitta della noia è come l’estasi istantanea in ogni atomo. Se sei immune alla noia, non c’è nulla che tu non possa fare”. Si può giudicare l’opera di David Foster Wallace separandola dalla pulsione di morte che abitava la sua mente e che a soli quarantasei anni lo ha portato al suicidio? Il realismo isterico della prosa massimalistica, lo sguardo malincomico sulle vicende umane affrescate nelle pagine dei pochi romanzi  pubblicati e dei racconti, sono probabilmente legati a quel malessere, all’urgenza, più volte avvertita, di uscire dalla vita. La sera del 12 settembre del 2008, nella sua casa di Claremont (California), pare che Wallace avesse pianificato tutto: scritto due righe di commiato alla moglie Karen, salutato i cani Jeeves e Drones, ordinato negli  scatoloni giù in garage i manoscritti del romanzo al quale stava lavorando già da parecchi anni. “La Cosa Lunga”, un librone di cinquemila pagine che si sarebbero ridotte a poco più di mille, aveva confidato all’amico Jonathan Franzen. Per completare questo librone Wallace aveva rinunciato a convegni, conferenze stampa, al party per il decennale di Infinite Jest, a uscite con gli amici. E a chi come lo stesso Franzen si preoccupava negli ultimi tempi del suo stato di salute e gli chiedeva al telefono come stai, lui alla sua maniera rispondeva:  “mi sento un po’ peculiare”. I pezzi del  romanzo che Wallace stava scrivendo vennero faticosamente assemblati tre anni dopo la sua morte, nel 2011, dall’editor Michael Pietsch in un libro di circa ottocento pagine pubblicato col titolo Il Re Pallido. Parliamo evidentemente di un romanzo incompiuto, ma quale opera di Wallace non lo è? Soprattutto, siamo proprio sicuri che si tratti di un romanzo? La risposta è nell’introduzione o parte metanarrativa, che troviamo, pensate, a pagina ottantacinque “Questo libro non è opera di fantasia, bensì sostanzialmente vero e accurato: Il Re Pallido è di fatto più un libro di memorie che una storia inventata”. Chiaro, no? Un libro di memorie ispirato all’esperienza che il giovane studente universitario David  Wallace avrebbe vissuto per tredici mesi presso l’Agenzia delle Entrate della sperduta Peoria, nell’Illinois “Il libro è basato in buona parte sui vari taccuini e diari che ho tenuto durante i miei tredici mesi come liquidatore standard al Ccr del Midwest. Il Re Pallido è, in altre parole, una specie di libro di memorie professionali”. Mm, bello scherzo, in tanti hanno abboccato. E sì perché tra il 1985 e il 1986 Wallace era impegnato negli studi universitari e a scrivere il suo primo romanzo, in quell’ufficio di Peoria non mise mai piede. Dunque? La noia. È questo il vero argomento, del romanzo? Assolutamente sì. Ma attenzione, non parliamo solo di quel non luogo a procedere della felicità, quel baratro astratto di malinconia nel quale è facile perdersi per sempre. La noia si può sconfiggere, è questo il messaggio contenuto nel libro. Lasciarsi attraversare senza opporre resistenza, sviluppare la capacità, a volte innata a volte acquista, di trovare l’altra faccia della ripetizione meccanica dell’inezia, dell’insignificante, del ripetitivo, dell’inutilmente complesso “eccola la chiave alla base di tutto, la chiave della vita moderna e della vera felicità: essere, in una parola, inannoiabile”. Il Re Pallido è un monumento di introspezione, un’opera di narrativa ma nel contempo un trattato di filosofia, un saggio di psicologia, il migliore testamento che un incursore dell’entropia come Wallace potesse lasciare ai suoi lettori. I libri di Wallace ci spalancano gli occhi, ci mostrano l’invisibile, nuove forme, altri colori, e ci fanno provare un’esperienza unica: la sensazione per un certo numero di pagine di essere essere lui, David Foster Wallace.

Angelo Cennamo

    

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HERZOG – Saul Bellow

Come quella di molti scrittori americani, la storia familiare di Saul Bellow è fatta di migrazioni, contaminazioni, sacrifici. Nato in Canada da genitori ebrei russi trasferitisi e naturalizzati negli Usa, il giovane Saul esordisce nella narrativa nel 1944 con Uomo in bilico. La notorietà arriverà però solo dieci anni più tardi con Le avventure di Augie March, romanzo di formazione, picaresco e dai mille registri narrativi. Scrittore dallo stile elegante  e dal temperamento per certi versi più europeo che americano, Bellow è senza dubbio tra i maggiori romanzieri del Novecento, e con Philip Roth, Bernard Malamud e i fratelli Singer, capofila della letteratura ebraica americana. Herzog viene pubblicato nel 1964: è il romanzo della sua consacrazione. La personalità dello scrittore protagonista del libro ricorda molto quella dell’autore secondo uno schema ampiamente collaudato nella letteratura anglosassone. Tradito dalla moglie e spoglio di ogni romantica illusione, Herzog – alter ego di Bellow – si ritira nella sua casa di campagna dove comincia a scrivere lettere su lettere a chiunque: amici, parenti, al Presidente degli  Stati Uniti, perfino ai defunti. Scrive in continuazione, Herzog,  per sfogare la sofferenza e per fuggire da quell’isolamento paranoico che si è autoinflitto. Ma a fare compagnia al dotto e spiantato studioso di romanticismo non ci sono soltanto quelle folli divagazioni metafisiche e quegli sproloqui torrenziali, fonte di ulteriori inquietudini. Tutto il romanzo è infatti pervaso di sessualità. Herzog rappresenta la prima spedizione protratta di Bellow come scrittore nell’immenso territorio del sesso, scriverà Roth, che quel terrirorio lo ha attraversato con riconosciuta abilità. E’ Ramona, la fioraia un tempo sua allieva alla scuola serale, che riporta l’isterico e disilluso protagonista all’intenso piacere del vivere reale, e che lo spinge ad uscire dal malinconico rifugio di campagna. Inutile dire che il fascino e la sensualità di Ramona vengono descritti da Bellow in modo minuzioso e suggestivo come solo un genio della scrittura ne sarebbe capace.

Dopo una spericolata trasferta a Chicago per rivedere la figlia rimasta a casa con l’ex moglie ed il suo amante “gondoliere” ( lo chiama così per via della gamba di legno che lo fa barcollare), Herzog riesce piano a piano a superare il dramma adulterino che gli è piombato addosso e quella strana mania di scrivere lettere. Non è pazzo, Herzog. O forse ha smesso di esserlo grazie all’affetto e alla generosa presenza di Ramona nella sua nuova vita.

Herzog è un personaggio potente, “il più grandioso, il Leopold Bloom della letteratura americana” scriverà sempre Philip Roth, che di Bellow è stato il miglior esegeta. Forse unico nel panorama della narrativa della seconda metà del Novecento per spessore filosofico, per l’emotività altalenante, paranoica, e per la capacità di mettere a fuoco con intensità e attenzione il proprio legame con le donne. Tutto il libro di Bellow è un susseguirsi di riflessioni profonde, a volte oscure, sul senso della vita, sull’amore, la disperazione, la morte. Bellow era così: colto, raffinato, vanitoso, multiforme. 

Angelo Cennamo

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I RAGAZZI BURGESS – Elizabeth Strout

STROUT

Una piccola casa gialla in cima a una collina nella periferia nordorientale degli Stati Uniti: chi lo conosce il Maine? E’ qui, in questo angolo remoto di un’America rurale, silenziosa e verace, lontana dagli stereotipi del cinema e della letteratura che comincia la storia di Jim, Bob e Susan: i fratelli Burgess. Una storia come tante altre se non fosse segnata fin dal suo inizio da un dramma mai spento: nel vialetto dietro casa, i tre fratellini, giocando con la leva del cambio, fanno piombare la macchina addosso al padre, uccidendolo. Bob ha quattro anni, di quel giorno ricordava solo il sole sul cofano dell’auto, il padre coperto da un lenzuolo e la voce dei suoi accusatori. Era tanto tempo fa. Quei ragazzi di campagna oggi sono diventati adulti e loro strade si sono divise: Jim è diventato un avvocato di successo, intervistato da giornali e televisioni. Gioca a golf, ha una bella moglie e dei figli che studiano in college prestigiosi. E’ determinato, sicuro di sé, spesso arrogante, specialmente con il fratello “Ehi, cretino” – così Jim chiama Bob – “Non sai niente di cosa significhi vivere in una casa da adulti, invece che in un dormitorio universitario. Non sai niente delle donne di servizio, dei giardinieri, di cosa significhi mantenere una moglie e dei figli”. La vita di Jim è semplicemente perfetta. Anche Bob è un avvocato, ma non lo conosce nessuno. Lavora per un sindacato che assiste i meno abbienti. Sua moglie lo ha lasciato quando ha scoperto che non poteva darle dei figli. Bob è un uomo fragile, alcolizzato “la gentilezza lo aveva reso debole per tutta la vita”, irrimediabilmente traumatizzato dal dramma familiare che si trascina dall’infanzia. Vive a Brooklyn, a pochi isolati da Jim, ma la sua casa non è lussuosa come quella del principe del Foro. Eppure è “un tipo gradevole. Stare con lui dava la sensazione di trovarsi all’interno di un circolo intimo e ristretto. Se Bob fosse stato consapevole di questa sua caratteristica, forse la sua vita sarebbe stata diversa”. Susan, gemella di Bob, è rimasta lassù, nel Maine, a Shirley Falls. E’ una donna trasandata, apatica, taccagna, divorziata, vive con un figlio di diciannove anni, taciturno, senza amici, esitante in ogni azione, mezzo matto: Zachary. I ragazzi Burgess si sono allontanati per smaltire i sensi di colpa di quella giornata funesta, ma il romanzo ha inizio proprio con una telefonata di Susan che chiede aiuto ai due fratelli: Zachary è nei guai. Per un uno stupido scherzo, il nipote di Jim e di Bob ha lanciato la testa di un maiale in una moschea frequentata dalla comunità somala. Ora rischia l’arresto e un processo per violazione dei diritti civili. La telefonata di Susan arriva nel momento in cui Jim e sua moglie stanno partendo per una vacanza. Toccherà allora a Bob risolvere quel caso così delicato. Ne sarà capace? Manco a dirlo, il fratello fragile e gentile si fa prendere dal panico, non parla con la polizia e non riesce neppure a difendere Zach dai giornalisti: la sua presenza a Shirley Falls si rivelerà del tutto inutile. Deve intervenire Jim, il solito Jim, big Jim, l’eroe della famiglia, con un suo collega patrocinatore nel Maine. La vicenda di Zach intanto si colora di politica e acquista una ribalta mediatica: a Shirley Falls organizzano una manifestazione per la tolleranza. Sul palco, con il governatore dello Stato, sale anche Jim. Bob è in piazza ad ascoltarlo. Nella sua mente si rincorrono mille pensieri, rivede l’infanzia nella casa gialla in cima alla collina e i fantasmi di quel passato tragico. Mentre Jim parlava “Bob provava invidia, la recrudescenza di un’antica tristezza, e il disgusto di fronte alla propria immagine grossa, sciatta, priva di autocontrollo. L’esatto contrario di Jim”. Eppure tra i Burgess esiste un legame solido e invisibile. Un legame che va oltre quel ricordo incancellabile: ad unirli c’è un profondo senso di lealtà. Una delle scene più emozionanti del romanzo si consuma in una stanza d’albergo di Shirley Falls. La conversazione tra Bob e Jim si accende tra i fumi dell’alcol. Jim non è l’uomo che sembra e di quel maledetto incidente di tanti anni fa esiste un’altra versione, rimasta sconosciuta. E’ una svolta importante che porterà “i ragazzi” a rifare i conti col proprio passato e a progettare un nuova vita.

I Ragazzi Burgess ha è un romanzo sui legami familiari e sulle fragilità affettive, costruito in modo armonioso intorno a pochi personaggi dalla personalità ben delineata. Una storia nella quale è facile riconoscere quella di altre famiglie della letteratura americana: i Levov di Pastorale Americana di Philip Roth, o i Lambert de ‎Le Correzioni di Jonathan Franzen. Illustri precedenti che tuttavia non inficiano l’originalità di un racconto brillante che colpisce fin dalle prime battute e che non delude le aspettative del lettore. Come i fratelli Burgess, anche Elizabeth Strout e’ originaria del Maine, lo Stato americano nel quale ambienta tutte le sue trame alla maniera di un’altra sua celebre collega, la napoletana Elena Ferrante. Strout e Ferrante hanno molto in comune: una prosa di facile fruizione, la giusta sensibilità nel raccontare le debolezze umane, un legame intenso, quasi viscerale, con le proprie radici. In un’intervista rilasciata qualche anno fa al Corriere della sera, Jeffrey Eugenides ( Le vergini suicide, Middlesex, La trama del matrimonio) dichiarò che la letteratura del nuovo secolo avrebbe parlato con la voce delle donne. Sta già accadendo.

Angelo Cennamo

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MIDDLESEX – JEFFREY EUGENIDES

MIDDLESEX Eugenides

” Sono nato due volte: bambina, la prima, un giorno di gennaio del 1960 in una Detroit straordinariamente priva di smog, e maschio adolescente, la seconda, nell’agosto del 1974, al pronto soccorso di Petoskey, nel Michigan“.

Nove anni dopo Le Vergini suicide – il romanzo d’esordio conosciuto anche per una felice trasposizione cinematografica diretta da Sofia Coppola –  nel 2002 Jeffrey Eugenides pubblica ‎Middlesex  – premio Pulitzer nel 2003 con quattro milioni di copie vendute – e si consacra come uno dei migliori scrittori americani contemporanei. ‎Middlesex è la biografia di un raro ermafrodito e di una famiglia fuggita dal crollo dell’Impero Ottomano per trovare fortuna in America. Un viaggio lungo e tormentato iniziato nel 1922, tra le fiamme di Smirne, con il  rapporto incestuoso di due fratelli. Lefty e Desdemona Stephanides si imbarcano come profughi francesi su un transatlantico diretto negli Stati Uniti. Fingono di non conoscersi e tra i passeggeri inscenano un curioso corteggiamento. “Non potevano raccontare di essere già fidanzati? Si, naturalmente. Ma non stavano cercando di ingannare gli altri, dovevano ingannare se stessi”. I due fratelli arrivano a sposarsi durante la traversata e trascorrono l’intimità della prima notte di nozze in una scialuppa di salvataggio. È l’inizio di un’incredibile odissea che, attraverso tre generazioni, due guerre e alterne vicende economiche, darà origine a quell’eccentricità biologica che colpirà la protagonista del romanzo: Calliope, detta Callie e infine Cal. Nei primi anni dell’adolescenza Calliope si accorge di essere diversa dalle sue coetanee e di non avere una chiara identità sessuale. Per fortuna la sua magrezza la camuffa e “i primi anni settanta erano un buon periodo per essere una ragazza senza seno. In quegli anni andava di moda il tipo androgino”. A quattordici anni Callie non ha ancora avuto le mestruazioni. Non le avrà mai, le diranno. Poco importa perché Callie ha deciso di essere maschio. La vicinanza di una nuova compagna di scuola “l’Oscuro Oggetto” le provoca uno strano turbamento. In una delle scene più coinvolgenti del romanzo, ambientata in una baita di montagna, Callie consuma quella irrefrenabile pulsione sessuale abbandonandosi tra le braccia del fratello di lei. L’irreale trasposizione fisica, vissuta in un clima di ebbrezza dionisiaca – tutto il racconto è segnato da continui riferimenti alla cultura greca – si conclude con un rapporto intimo, che però non basterà a svelare l’inquietante segreto perché il suo iniziatore non si accorgerà di nulla. Ma di momenti imbarazzanti ce ne saranno molti altri: tutta la storia di Cal – dilatata nel tempo e nello spazio attraverso i ricordi giovanili e l’età adulta della contemporaneità, in Germania – è travagliata da un continuo e taciuto senso di inadeguatezza che lo porterà a vivere seduzioni incomplete, sempre ai margini della verità e della dignità, spesso in contesti squallidi e degradati.

Middlesex è un romanzo unico nel suo genere, che affronta con ironia e leggerezza un tema doloroso, complesso, quello dell’identità sessuale, oggi di grande attualità ma nei primi anni duemila non ancora dibattuto, sullo sfondo di un’epopea semisconosciuta e poco rappresentata nella letteratura. Una storia drammatica raccontata con garbo ed eleganza da un poeta di altri tempi, un narratore acuto e sensibile che qualche anno dopo, con La trama del matrimonio, confermerà tutto il suo talento.

Angelo Cennamo

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