LINCOLN NEL BARDO – George Saunders

Lincoln nel Bardo di George Saunders

Un uomo estremamente alto e trasandato avanzava fra le tenebre. Una grave infrazione. Non era orario di visite. Il cancello d’ingresso era chiuso. Piangeva sottovoce, e la crescente frustrazione per il fatto di essersi smarrito lo rendeva ancor più triste.

 

Lanciatosi fuori dalla porta, il ragazzino gli corse subito incontro, la gioia dipinta in volto. Che mutò in costernazione quando l’uomo non lo sollevò in braccio come, immagino, usava fra loro. Il ragazzino gli passò attraverso, mentre l’uomo proseguiva verso la casa di pietra bianca, piangendo  

L’uomo che avanza fra le tenebre è Abramo Lincoln. È la notte del 25 febbraio del 1862, la Guerra Civile è iniziata da un anno, e il presidente degli Stati Uniti si reca nella cripta del cimitero di Georgetown, a Washington, per aprire la bara e abbracciare Willie, il figlio prediletto, morto di tifo poche ore prima, durante una festa da ballo, all’età di undici anni. Questo è il dato storico sul quale George Saunders – scrittore texano che il New Yorker colloca nella lista dei venti scrittori per il XXI secolo – imbastisce la trama di Lincoln nel Bardo, il suo primo romanzo, uscito nel 2017 e subito diventato un caso editoriale.

Nella tradizione buddhista, il Bardo è quello stato intermedio in cui la coscienza o consapevolezza della propria morte è sospesa tra la vita passata e quella futura. E’ un non luogo, un altrove indefinito, una sorta di limbo abitato da anime convinte di essere malate e di fare ritorno, prima o poi, una volta guarite, nel mondo dei vivi. Le casse da morto le chiamano “casse del malato”, e le tombe “case del malato”.

Tutto il romanzo si svolge in una sola notte. Il presidente prende il corpo del piccolo Willie dalla bara, la “forma malata”, e lo stringe a sé. Piange. Willie lo guarda, gli gira intorno, entra nel suo corpo, nella sua mente, la pervade. Attraverso questa immedesimazione, fisica e spirituale, possiamo leggere nei pensieri del padre addolorato tutto lo strazio e l’avvilimento per quella morte inaspettata e crudele. Dietro di lui, lo stupore delle altre anime, che assistono alla scena per poi intromettersi, penetrare nello stesso corpo e amalgamarsi tutte insieme. Cento corpi diventano uno solo, una sola mente, un solo dolore. Willie non riesce a separarsi da suo padre e suo padre non riesce a sperarsi da lui. Il piccolo viene accompagnato da tre spiriti guida, le tre voci narranti: un reverendo; un omosessuale suicida, e un quarantaseienne colto dalla morte poco prima di consumare il matrimonio con la sua seconda moglie adolescente, e che ora vaga per il Bardo con il suo “formidabile membro” eretto. Nella storia tragica e surreale di Saunders non mancano momenti di leggerezza e di comicità – è la cifra dei grandi scrittori americani quella di far ridere anche nei momenti inopportuni o quando non te lo aspetti. Nel contatto con il padre Willie capisce finalmente di essere stato strappato alla vita Non siamo malati, siamo morti. Ora tutti sanno. Devono sapere.         

Suo figlio se n’era andato; suo figlio non era più…suo figlio non era in nessun luogo; suo figlio era in ogni luogo

 

Lincoln nel Bardo è un’opera letteraria indefinibile. Considerarla un romanzo nella sua accezione classica sarebbe una forzatura: paragrafi di prosa si alternano a citazioni brevi, alcune vere alcune riprodotte nella finzione. Frammenti che acquistano senso e significato solo se letti nella loro interezza e collegati alle altre parti della narrazione, quelle, per intenderci, più lineari e comprensibili. Saunders con maestria rimodula il linguaggio postmoderno in una scrittura volutamente ottocentesca. Il risultato è strabiliante, da brivido. Leggendo il libro ho pensato alla lettera che Pasolini scrisse a Moravia per illustrare il progetto ambizioso al quale stava lavorando: Petrolio. Non sarà un vero e proprio romanzo, scrive Pasolini all’amico e collega scrittore, ma una nuova forma letteraria. Ecco cos’è Lincoln nel Bardo: una nuova forma letteraria, con una struttura elastica che si scompone e si ricompone paragrafo dopo paragrafo. Un libro intenso e poetico, di non facile lettura, rivoluzionario, a metà strada tra la Divina commedia di Dante, ‘A Livella di Totò e una tragedia di Sofocle.

Angelo Cennamo         

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IL GIARDINO DEI FINZI-CONTINI – Giorgio Bassani

 

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De Il giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani conservavo un vago ricordo liceale mescolato confusamente alle immagini del film – premio Oscar – diretto da Vittorio De Sica, e uscito otto anni dopo la pubblicazione del libro. Rileggendo il romanzo in età adulta, con calma, con più attenzione, lontano ahimè dalle atmosfere cupe e concitate delle interrogazioni di fine anno e dal frastuono delirante dei Duran Duran, ho ritrovato evidentemente un’opera molto diversa dalla sua, forse, innaturale collocazione scolastica – la scuola allontana i giovani dal piacere della lettura – e ne ho potuto finalmente apprezzare la bellezza delle ambientazioni oltre che della trama, la scrittura fluida, pulita, le dolorose implicazioni storiche che fanno da sfondo alle vicende narrate, la poesia che le avvolge, le malinconie taciute dei protagonisti.

Corso Ercole I d’Este questa strada di Ferrara è così nota agli innamorati dell’arte e della poesia del mondo intero che ogni descrizione che se ne facesse non potrebbe non risultare superflua

La storia raccontata da Bassani comincia e finisce qui, alla fine degli anni Venti del secolo scorso. Addentrandoci oltre il muro di cinta, bordato di cipressi, tigli e platani secolari, si schiude il piccolo mondo antico di un’aristocratica famiglia ebrea: i Finzi-Contini. Il professor Ermanno, sua moglie Olga, i figli Alberto e Micòl, la servitù. Quasi dieci ettari di bosco, e più in fondo, al termine di un viale ghiaioso, un edificio, nel ricordo della voce narrante – senza volto e senza nome – ancora superbo ed elegante: la mole neogotica della magna domus. Nel ’28 Micòl era una tredicenne bionda con grandi occhi chiari, già bella e dispettosa come dieci anni dopo, quando, promulgate le leggi razziali, il protagonista del racconto, su invito di Alberto, accede per la prima volta in quel luogo fuori dal mondo, nascosto tra la fitta vegetazione, che da ragazzino poteva solo immaginare percorrendo la strada esterna.

Il giardino dei Finzi-Contini, con il suo campo da tennis dietro l’edificio, è diventato il ritrovo di una gioventù universitaria, borghese ed ebrea, da un giorno all’altro esclusa dai circoli sportivi piu esclusivi della città, il dignitoso surrogato di una socialità negata. Qui il protagonista trascorrerà i pomeriggi autunnali del ’38, giocando a tennis con gli altri amici e passeggiando con l’adorata Micòl. A piedi o in bicicletta, a parlare del più e del meno, degli studi universitari da completare o di botanica. Quando la pioggia improvvisa costringe i due a riparare in un capanno e ad accomodarsi tra i divanetti di una vecchia carrozza di famiglia, per un attimo mi è sembrato di rivedere una celebre scena di Titanic, quella in cui Jack e Rose si abbandonano repentinamente alla passione tra i sedili di un auto parcheggiata nella stiva. La scena prosegue con i loro corpi sudati, avvinghiati l’uno all’altro, che sfumano dietro i vetri appannati dal desiderio. Ma il protagonista del romanzo non ha la stessa intraprendenza del giovane Di Caprio né Micòl la sfacciataggine di Kate Winslet. E allora di quel goffo contatto solitario nel chiuso della carrozza non resterà che il rimpianto di lui, troppo timido, troppo timoroso, per dichiarare l’amore. Il primo bacio, quello sì, prima o poi arriverà, ma sarà troppo tardi per dare inizio a ciò che non sarebbe mai cominciato. “Tutto perduto, niente perduto” avrebbe detto Stendhal.

Bassani ci racconta un sentimento equivocato, un amore non corrisposto, impossibile, l’avvilente e spudorata insistenza di un giovane innamorato oltre il rifiuto della propria amata. Posso tornare ogni tanto? Chiede l’illuso pretendente a una Micòl stufa ai limiti della maleducazione. Sei senza dignità, gli risponde lei, prima che la storia curvi sul dramma della deportazione e la farsa si trasformi in tragedia.

Il giardino dei Finzi-Contini è stato pubblicato nel 1962. Tre anni prima, Il gattopardo si era aggiudicato il premio Strega davanti a Una vita violenta di Pasolini. Negli stessi mesi, Raffaele La Capria scriveva Ferito a morte, Natalia Ginzburg Lessico Famigliare, Dino Buzzati i suoi Sessanta racconti, Carlo Emilio Gadda La cognizione del dolore e Primo Levi La tregua. Capolavori senza tempo, i grandi romanzi italiani, i romanzi di una nazione che in quegli anni aveva ancora molto da raccontare.

Angelo Cennamo

 

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PATRIA – Fernando Aramburu

 

Patria

 

 

Siamo tra gli anni Settanta e Ottanta nell’entroterra di San Sebastián, nei Paesi Baschi, terra di confine tra due Spagne che non si riconoscono e che parlano lingue diverse: il castigliano e l’euskera. Qui vivono le famiglie di Joxian e Txato, vicini di casa e amici inseparabili, con i loro figli e le rispettive mogli, Miren e Bittori. Gente semplice, legata alle tradizioni contadine, che si diverte con poco: il ciclismo, le partite a carte in osteria, quattro passi in piazza dopo la messa. Poi tutto cambia. Quel clima di serena e pacifica convivenza, quella socialità così schietta, allegra, bucolica, pregna di solidarietà cristiana, vengono spazzati via dalla ferocia del terrorismo indipendentista, l’ETA. Un fatto tragico ed imprevedibile finisce per allontanare le due famiglie e tracciare un solco nelle loro vite, una ferita che non si può rimarginare. Txato viene preso di mira dai terroristi perché si rifiuta di pagare il pizzo: non vuole contribuire al finanziamento della lotta armata. In paese lo additano come un traditore, molti lo evitano, Joxian compreso, il suo amico più caro, che, quando lo incontra per strada, finge addirittura di non conoscerlo. Lettere minatorie, scritte sui muri, avvertimenti: il destino di Txato sembra ormai segnato. E’ un destino tragico e beffardo perché nel commando che lo ucciderà quel pomeriggio piovoso, proprio sotto casa sua, a due passi dal garage, ci sarà Joxe Mari, uno dei figli di Joxian. Da questo momento, la storia acquista i toni, il vigore del dramma, e prende il largo con i suoi numerosi personaggi che calcano la scena da veri protagonisti. Tutti, nessuno escluso. A cominciare dalle due matriarche, Bittori e Miren, eroine tragiche di un romanzo maestoso e corale come pochi altri. La prima, alla ricerca del difficile perdono da parte di Joxe Mari, nel frattempo catturato dalla Guardia Civil e condannato all’ergastolo; la seconda, ostinata a difendere le ragioni del figlio, rafforzata nel proprio convincimento dalle prediche di don Serapio, il parroco che abbraccia gli ideali del terrorismo e che giudica una provocazione il ritorno in paese di Bittori.

La vicenda del Txato è solo una delle tante trame che vengono raccontate nel romanzo, uno per ogni personaggio verrebbe da dire, racconti intrecciati tra di loro da un vissuto in parte comune, che si collegano al tragico omicidio del padre e amico di famiglia per poi affrancarsi dal tema principale e proseguire in altre direzioni. La storia di Gorka, ad esempio, scrittore in erba e fratello minore del terrorista Joxe Mari, che rifiuta di arruolarsi nell’ETA pur difendendo con la poesia e la narrativa le peculiarità culturali della regione basca – leggendo di Gorka ho pensato all’autore del libro, che di recente ha raccontato di essere fuggito dalla tentazione della lotta armata proprio grazie ai libri e allo studio. Il romanzo nel romanzo di Aranxta, altra figlia di Joxian che, a seguito di un ictus, finisce su una sedia a rotelle e comunica solo attraverso un’iPad. Quello della sua amica Nerea, figlia del Txato, ragazza fragile e scapestrata che reagisce alla notizia dell’assassinio del padre facendo sesso con un compagno di università. Suo fratello è invece un uomo fin troppo prudente e assennato. Cinquant’anni, medico, introverso, di bella presenza, molto legato alla madre, sempre preoccupato per le sorti della propria famiglia, Xabier ci ricorda un po’ il Gary Lambert de Le Correzioni. Tutto il romanzo di Aramburu, per il disamore, le ripetute deviazioni dal giusto dei figli di Jaxo e Txato, e per le complicate relazioni familiari affrontate, scorre sulla falsariga del capolavoro di Jonathan Franzen.

Joxe Mari, intanto, in carcere, medita sui fallimenti della lotta armata, sull’odio inconcludente che ha lacerato la comunità dove ha vissuto, e sugli anni migliori della propria vita che non gli saranno restituiti. Forse per lui è giunto il momento di rasserenare gli animi e di ricucire quello strappo doloroso con la famiglia di Txato. Pagine indimenticabili di passioni intense, di sentimenti sconfitti, di grande letteratura.

Patria è il grande romanzo spagnolo. Ma quella raccontata da Aramburu non è la Spagna delle corride o delle partite di calcio del Real Madrid, e neppure il paese avanguardista e trasgressivo che ritroviamo nella cinematografia di Almodovar. E’ una nazione lontana dagli stereotipi, dal folklore, dall’immagine gaudente e turistica delle ramblas di Barcellona. Aramburu ci conduce nelle province del profondo Nord, a ridosso della Francia, per farci conoscere un pezzo di storia recente della comunità dove lui è vissuto, una storia  che per certi versi evoca i nostri anni di piombo, l’Italia violentata dal terrorismo delle Brigate Rosse e lacerata dagli scontri di piazza.

Angelo Cennamo

 

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L’INVENZIONE DELLA MADRE – Marco Peano

 

L'invenzione della madre - Marco Peano

 

Uno dei primi ricordi che ho della mia infanzia risale a una mattina d’estate del 1971 o 72. Sono in spiaggia con mio padre, seduto sotto l’ombrellone, e osservo mia madre che nuota fino a prendere il largo. Poco alla volta la sua testa diventa un puntino invisibile. Mi spavento, piango, grido: mamma! Allora mio padre, dietro di me, mi tranquillizza, mi dice di non preoccuparmi, che la mamma sa nuotare, che non le succederà niente, e mi invita a salutarla con la mano. La stessa scena che ho vissuto quella mattina di tanti anni fa su una spiaggia di Paestum, mi pare, la evoca ad un tratto Mattia, il protagonista de L’invenzione della madre, opera prima di Marco Peano. Leggendo quelle pagine ho pensato che la letteratura serva soprattutto a questo: a riconoscersi nelle storie raccontate, a ritrovare brandelli della nostra vita nelle vite degli altri, e a ricordare episodi che si erano perduti nella memoria o che avevamo rimosso per chissà quale ragione.

Mattia ha ventisei anni, ha studiato cinema senza laurearsi, e ora lavora come commesso in una videoteca del suo paese. È fidanzato con una ragazza senza volto e senza voce, dalla quale si separerà amichevolmente (un CID), un padre pensionato e una madre malata di cancro. La madre. Dopo il ricovero in ospedale la donna è alloggiata e vegliata di là, in un fabbricato basso costruito nell’ampio cortile, in origine la vecchia officina del padre. È confinata in quella dépandance perché incapace di affrontare tre rampe di scale. Il romanzo scorre come un diario, il diario doloroso della malattia, implacabile, irreversibile: le diagnosi, le cure, la radioterapia nei sotterranei dell’ospedale un intrico di corridoi che puzzano di palestra delle medie; le medicazioni, le parole in greco che danno origine alla complicata terminologia medica Con disinvoltura  – il figlio – padroneggia vocaboli come istologico e meningioma.

Mattia è un ragazzo educato e sensibile. Le sue giornate sono grigie, noiose, malinconiche: la videoteca spoglia con pochi clienti; il suo capo che se ne sta al bar della stazione a bere aperitivi e a mangiare noccioline mentre lui lavora, o attende di lavorare; la monotonia del paesaggio urbano, sonnolento, abulico; la corriera che lo riporta a casa; la fidanzata che frequenta solo i fine settimana il resto del tempo ognuno lo consuma solo con se stesso. E poi lei, la madre. Mattia la stende con cura sul letto, la lava, la pulisce, la cambia. Poi quando ha finito la bacia, restituendole uno delle migliaia di baci della buonanotte che quand’era bambino lei gli ha dato.

La vita di Mattia non somiglia per niente a quella dei protagonisti dei film che ha studiato all’università o che vede nei ritagli di tempo nella videoteca, anche se in quel triste e pigro scorrere del tempo gli sembra, talvolta, di rivivere le scene di certi capolavori hollywoodiani.

Quanto. Tempo. Resta?

Arrivano inesorabili gli ultimi giorni della malattia Sua madre era un temporale in progressivo allontanamento, e nessuno poteva opporsi. In una delle scene più commoventi del romanzo, Mattia si spoglia nudo e si addormenta sotto le coperte, vicino al suo corpo malato. Vuole mostrarsi per l’ultima volta com’era quando lei lo vedeva da bambino.

Il respiro comincia a farsi lento e affannoso. Sempre più lento. Il gesto drammatico dello specchio che non si appanna contro la bocca di lei tradisce l’ultima speranza in un miracolo che non può compiersi.

Ero felice e non lo sapevo, penserà Mattia spegnendo il cellulare, togliendosi le scarpe. Entrerà a piedi scalzi nella sua cameretta di bambino, e il passato si chiuderà su di lui.

Mattia prova a riavvolgere il nastro dei ricordi. Ritrova sua madre in piccoli oggetti quotidiani, nel numero del cellulare che fa squillare a vuoto. A volte un treno ne nasconde un altro gli torna in mente quel cartello che vide a Parigi in gita con la scuola. Imparare a dire addio a ciò che abbiamo amato di più: è questo il senso della storia raccontata nel libro.

L’invenzione della madre è un romanzo tenero e commovente, a tratti noioso e ripetitivo, ma scritto con garbo e maestria da un esordiente di grande talento. In alcuni passaggi mi ha ricordato Crepuscolo di Kent Haruf, in altri Mi chiamo Lucy Barton di Elizabeth Strout. Peano regge bene il confronto con i suoi colleghi americani, anche se la difficoltà di certi argomenti richiederebbe una più ampia varietà di registri e maggiore ironia. Ma di tempo, per migliorare, Marco Peano ne ha.

Angelo Cennamo

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CRONACA DI LEI – Alessandro Mari

 

 

Cronaca di lei - Alessandro Mari

 

Alessandro Mari, classe 1980, una laurea in lingue e letterature straniere con tesi sul postmodernismo di Thomas Pynchon, Scuola Holden, e un esordio col botto grazie a un librone di ottocento pagine sul risorgimento Troppo umana speranza, vincitore del premio Viareggio-Rèpaci. Nel 2017 esce il suo quinto romanzo intitolato Cronaca di lei, una storia drammatica ambientata nel mondo dello sport e dello show-business.

Milo Montero – soprannominato One Way perchè di fronte agli avversari non indietreggia mai – è un pugile sull’orlo del declino. Dopo una bruciante sconfitta, il divorzio dalla moglie inglese, e due operazioni all’occhio sinistro, all’età di trent’anni Milo vuole rientrare tra i professionisti per difendere il titolo europeo contro il gigante tedesco Mayer. È una sfida sulla carta proibitiva, ma intorno al campione italiano si mette in moto una macchina organizzativa super collaudata: il primo maestro, Pietro Sciuto, vecchia scuola, che lo allena sulle note e al ritmo di Beethoven; il preparatore atletico Viktor l’amico a cui da anni consegna l’intimità del corpo e il logoramento da risanare; Denis, l’autista tatuato che scorrazza l’intero clan, cane compreso, col fuoristrada dai vetri scuri, e soprattutto lei, la sorella Irene quella che gli permette di essere chi è. Irene è una manager cinica, spietata,  forgiata dalla povertà e l’impossibilità, dalle possibilità conquistate e dalla lotta. Dai soldi. È lei, Irene, a gestire l’impero economico di Milo: incontri, sponsor, che mette sul mercato prodotti con il suo suo marchio, e che ha l’idea di ingaggiare uno scrittore, Leo Ruffo, per raccontare in un libro le prodigiose avventure di One Way.

Ora però nella vita misurata e organizzatissima del pugile è comparsa un’altra donna, la donna che gli fa battere il cuore, una puttana, una specie di modella, la definisce Irene, una figura enigmatica, venuta dal nulla, senza passato e senza nome, che Mari chiama semplicemente la ragazza. Lei e Milo parlano la stessa lingua, fatta soprattutto di piccoli gesti, di sesso, di ginnastica, più che di parole.  Fin da subito, il rapporto difficile e litigioso tra la ragazza e Irene diventa uno dei temi dominanti dell’intero romanzo. Le due donne si guardano con diffidenza, e interagiscono unicamente per una causa comune: il successo di Milo, ovvero il denaro di tutti. Simul stabunt simul cadent:  è questo il principio, il perno sul quale si regge il sistema affaristico sapientemente costruito da Irene intorno al fratello. Un fragile equilibrio che comincia però a scricchiolare definitivamente per via di una terza donna: Sara, la coinquilina lesbica della fidanzata di Milo, inciampata suo malgrado in un brutto episodio che finirà per stravolgere il corso della storia. È qui, infatti, che la narrazione devia dalla vicenda sportiva del pugile per arricchirsi di nuove trame, oscure ed imprevedibili. La ragazza, poco alla volta, smette di essere una figura di contorno, la misteriosa comparsa dei primi capitoli, e inizia ad acquistare spessore, fino a diventare la vera protagonista del romanzo. La vicenda di Sara diventa allora il paradigma che ridefinisce i confini del bene e del male, la soglia oltre la quale ogni compromesso si fa complicità. Ora la ragazza deve decidere da che parte stare, e se per vendicare l’amica valga la pena oppure no tagliare quel filo doppio, il filo della reticenza, che lega tutti i membri del clan, lei compresa. Siamo alle ultime cinquanta pagine della storia che nelle sue battute conclusive non risparmia colpi di scena e una clamorosa sterzata sul traguardo firmata da Leo Ruffo, il biografo dei Montero.

Cronaca di lei è un romanzo avvincente, con ambientazioni neutre: camere di hotel, palestre, ville, palazzoni metropolitani, aeroporti – siamo in una indefinita provincia italiana, talvolta a Milano, ma potrebbe trattarsi anche di Detroit o Londra – un libro ben strutturato, moderno oltre ogni limite, dalla scrittura pulita, scorrevole, gelida, e colta quanto basta. Mari è padrone del suo tempo, della lingua di questo tempo, non guarda alla tradizione né strizza l’occhio all’America, per quanto il suo stile ricordi a tratti quello di DeLillo. Mari scrive come scrive perché è giovane per davvero, ed è bello pensare che la globalizzazione si insinui anche nella prosa annullando distanze e falsi miti.

Angelo Cennamo

 

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XY – Sandro Veronesi

 

 

XY Veronesi

 

“Borgo San Giuda non era nemmeno più un paese, era un villaggio. Settantaquattro case, di cui più della metà abbandonate, un bar, uno spaccio di alimentari e la chiesa con la sua canonica – spropositate, in confronto al resto. Fine”.

Provo sempre un certo imbarazzo a parlar male di un libro, sopratutto quando a scriverlo è uno dei miei autori preferiti. Anche perché sono convinto che in un qualunque romanzo, anche il peggiore – non è questo il caso, sia chiaro – ci sia, oltre ogni limite o imperfezione, qualcosa di buono, qualcosa da salvare: un personaggio, un ricordo, una riflessione, un dialogo. Di Sandro Veronesi ho amato la parabola tragicomica di Pietro Paladini, protagonista di Caos calmo – premio Strega nel 2006 – e del suo sequel Terre rare. Così come mi ha intrigato il fascino biondo e incestuoso di Belinda, la giovane sorellastra di Méte, nel moraviano Gli sfiorati, romanzo scritto da Veronesi agli albori della sua carriera. XY ho iniziato a leggerlo sulla scia di IT, il capolavoro di Stephen King che racconta la storia di una dannazione mostruosa, dalle sembianze indefinite, multiforme, che colpisce la cittadina immaginaria di Derry nello sperduto Stato americano del Maine. L’ambientazione del romanzo di Veronesi, per certi versi anche la sua trama, ricorda un pò l’orrida vicenda vissuta dal clan dei perdenti nel voluminoso tomo di King. Al centro del racconto c’è la comunità di uno sparuto borgo di montagna, nel Trentino, il Maine italiano per l’appunto. Poche famiglie, raccolte in un fazzoletto di terra lontano da tutto e da tutti, perfino dai segnali radio-televisivi e da internet.

Una mattina d’inverno, su quel luogo così innevato, tempestoso, e già spettrale di suo, all’imbocco di un bosco, si abbatte una sciagura che non si può spiegare né raccontare: dieci persone trovano la morte per altrettante cause diverse. “La strage di San Giuda” – così la chiamano i media per semplificare la notizia, immaginando che Giuda sia il discepolo di Gesù, l’Iscariota, e non Taddeo – non solo non ha colpevoli ma soprattutto non ha delle cause plausibili, credibili, al punto che il Procuratore di Trento sceglie di offrire all’opinione pubblica e alla stampa una sua versione dei fatti, clamorosamente falsa e mostruosamente artefatta. Il caso verrà archiviato come un attentato di matrice islamica e coperto dal segreto di Stato. Punto.

I protagonisti del romanzo, nonché le due voci narranti, sono Giovanna Gassion, una psichiatra a sua volta in cura da uno psicanalista, alla quale, nella stessa mattina della strage, si riapre misteriosamente una ferita procuratasi quindici anni prima, e don Ermete, un parroco dai trascorsi beat ed ex missionario.

Giovanna è una donna fragile, insicura, in fuga da una relazione sentimentale finita con un magistrato assillante e parte in causa nelle indagini sulla strage. Don Ermete è invece una figura enigmatica, apparentemente saggio e molto preoccupato per le sorti dei suoi fedeli.

Nella prima parte del romanzo Veronesi è molto abile a caricare di suspense la sua storia e a mantenere alta la tensione. Lo scenario alpino, l’isolamento, le morti inspiegabili, il tormento del Procuratore costretto a depistare le indagini per occultare una verità incomprensibile ed incontenibile nel dettato della legge, sono tutti elementi che suggestionano e che giovano a un impianto narrativo pressoché perfetto. Ma è nella seconda parte che la trama, mai la scrittura, comincia ad evidenziare le prime crepe, incertezze che nel finale conducono il lettore in una specie di vicolo cieco, lasciandolo frastornato, immerso in una serie di interrogativi senza risposta. Giovanna, forse, più per allontanarsi dal suo ex fidanzato che per delle reali motivazioni professionali, decide di raggiungere don Ermete a San Giuda per assistere, dare un supporto psichiatrico, a quel “gruppo di vecchi che erano già pazzi ognuno per conto proprio prima impazzire tutti insieme”. Gli abitanti del borgo, infatti, quelli che hanno deciso di non andare via, sembrano in preda ad una improvvisa forma di impazzimento, si sentono traditi da San Giuda e anche dal loro parroco. La missione di Giovanna, quella di sottoporre il borgo ad una sorta di psicanalisi collettiva, fin da subito si rivela un fallimento. Giovanna non ha gli strumenti né professionali né umani per affrontare quel compito così inusuale e senza precedenti. Come può Giovanna guarire gli abitanti di San Giuda se neppure lei stessa, stressata al telefono dalla madre e ossessionata dal pericolo di ritornare col suo ex compagno, riesce ad orientarsi in quella vicenda cosi assurda? Anche don Ermete, dal canto suo, ha molti dubbi. La strage nel bosco va attribuita a Satana, pensa fin da subito il sacerdote. Non ci possono essere altre spiegazioni, “l’edera non può superare il muro“. Poi però un tarlo inizia ad insinuarsi nella mente, a logorare poco alla volta le sue convinzioni, e a sbiadire dentro di lui il confine tra scienza e fede: e se i morti di San Giuda fossero le vittime di un castigo divino?

Nella terza parte del racconto, quella conclusiva, Giovanna e don Ermete provano a tracciare un quadro verosimile e definitivo di quella tragica esperienza, esponendo ciascuno il proprio punto di vista. Ma il dialogo tra i due, anziché far emergere una clamorosa verità, il colpo di scena che il lettore attende col fiato sospeso da almeno trecento pagine, si risolve in una sequela di banalità sull’irrazionale mistero della vita lasciando appesa una storia che aveva alimentato ben altre aspettative.

Difficile giudicare un romanzo che sembra un noir ma che non è neppure un horror. Difficile soprattutto giudicare l’autore del libro, che in questo strano tentativo di depistare i propri lettori ha finito per smarrire se stesso. Dov’è finito Veronesi? Mah!

Angelo Cennamo

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