Caldo asfissiante. Afa. Alle quattro di pomeriggio, con 39 gradi all’ombra, arrivammo a via Cilea, sotto casa dello sposo. Le lamiere dell’Alfa Romeo di Colajanni erano roventi come una padella, e i sedili in pelle una vera tortura per i nostri corpi già martoriati dagli abiti della cerimonia. Colajanni indossava un fresco lana blu scuro su una camicia rigorosamente bianca. La cravatta a pois era in tinta con l’enorme pochette che gli usciva dal taschino, e ai piedi calzava i soliti mocassini neri. Lucidissimi. All’ultimo momento l’avvocato dovette rinunciare al panama perché in un gesto di stizza lo aveva lanciato fuori dal finestrino dopo essersi accorto di aver sbagliato strada mannaggiamòrt. Giulia, liberatasi della divisa di ordinanza – scarpette da tennis, jeans a zampa di elefante, maglietta stropicciata e capelli arruffati – aveva ritrovato l’eleganza dei primi tempi. Per la serata aveva scelto un tubino rosso scuro con una stola color panna. In macchina aveva tolto i sandali. Cercava disperatamente di refrigerarsi con un ventaglio di seta che si era premurata di mettere nella borsetta prima di scendere. In prossimità del palazzo, Colajanni mi indicò una cabina telefonica.
– Eccola – Cosa? – La cabina telefonica. E’ da quella cabina che Federico ci annuncia i suoi disastri – Giulia scoppiò a ridere – Quali disastri, pà? – I peggiori – disse l’avvocato, accendendosi la sigaretta, mentre con l’altra mano si passava il fazzoletto sulla fronte. – Poverino, non lo hai mai sopportato – Giulia non riusciva a comprendere l’avversione di suo padre per quello sciagurato di Federico. Era convinta che la sua fosse pura antipatia e che l’attività di studio, quella strana goffaggine, gli errori ripetuti e ripetuti ancora, la negligenza, a volte strafottenza, non c’entrassero nulla con le liti continue: Federì, nun ne è capito nu cazzo! Federì, ma che cumbin? Federì, ho detto ricorso non atto di citazione. Federì, hai dimenticato nata vota ‘a borsa in tribunale? Eccheccazzo!
– Vedi, Giulia – disse l’avvocato – Federico per me è una persona di famiglia. L’ho accolto nello studio come un figlio. Non è vero, Eduà? Ma se devo dirla tutta, la sua ostinazione per la professione mi ha sempre fatto incazzare. Glielo dico dal primo giorno: Federì, fai un concorso. Chiedi a tuo zio se ti prendono alla Sip. Niente da fare. Deve ringraziare il suocero che gli passa quelle quattro pratiche dell’Inps, se no, a quest’ora, stava fresco. – Sarà – disse Giulia – ma con lui sei troppo severo. Dovresti dargli più tempo, nessuno nasce avvocato –
Riuscimmo a parcheggiare proprio vicino al portone, tra un cassonetto straripante di rifiuti e il furgoncino di uno fruttivendolo. Salimmo in fretta per consegnare i regali prima che lo sposo si avviasse in chiesa. Colajanni aveva comprato un orologio svizzero, completamente d’oro, con i numeri romani. Io dei gemelli ed un fermacravatta. Federico, sarà stata l’emozione o forse il caldo, non so, ci venne incontro più rincoglionito del solito, sudato come un parcheggiatore abusivo sotto il sole di ferragosto. Tanto che Colajanni, dopo avergli fatto gli auguri, si strofinò il fazzoletto sul viso, manco avesse baciato una puzzola. Con molta fatica scartò i regali ricevuti, e visibilmente commosso ci ringraziò con un altro bacio. Colajanni però stavolta riuscì a schivarlo.
– Forza forza, avviamoci che è tardi – disse l’avvocato, guadagnando l’uscita. Montammo di corsa in macchina e sfrecciammo verso S. Antonio a Posillipo dove di lì a poco si sarebbe tenuta la funzione. Mimmo grondava di sudore e suonava il clacson all’impazzata come se stesse correndo in ospedale con un ferito a bordo. Nonostante i lavori in corso per il rifacimento della carreggiata del primo tratto di via Orazio, arrivammo sulla collinetta di Posillipo in perfetto orario. Lasciammo le chiavi a un tizio col cappellino da marinaio che tutti chiamavano ‘o barone, e ci avviammo verso la chiesa. Io e Giulia avanti, Colajanni un paio di metri dietro di noi. C’erano molte auto in sosta e la piazzetta era mezza piena.
L’avvocato preferì rimanere all’esterno. Attese la fine della messa appoggiato alla ringhiera della piazzetta fumando come un forsennato. Di tanto in tanto si avvicinava al sagrato per controllare a che punto fosse la cerimonia. Io e Giulia invece dovemmo soffrire stoicamente tra i primi banchi del santuario assieme agli altri invitati assiepati fino all’ingresso. Benedizione. Campane. Amen. Foto. Quando finalmente gli sposi uscirono, fu una liberazione per tutti. Colajanni si rimise immediatamente alla guida della sua Giulietta e, prima ancora che io e Giulia ci sistemassimo nell’abitacolo e chiudessimo per bene gli sportelli, sgommò verso il ristorante. Il peggio era passato.
Da Ciro a Marechiaro l’aria profumava di polpi all’insalata e di fritto di paranza. Il tavolo che ci avevano assegnato era nell’angolino più suggestivo della terrazza. Il tramonto ci sorprese all’improvviso – Finalmente respiriamo – disse Giulia, aggiustandosi i capelli con un fermaglio di madreperla. La brezza si fece piano piano vento e gli ombrelloni all’estremità della terrazza cominciarono ad ondeggiare.
Un’orchestrina prese a suonare uno vecchio swing americano e la terrazza di colpo si trasformò in una pista da ballo. Alla batteria riconobbi Marcello Calopresti, un vecchio compagno di università che non vedevo da anni. Federico conosceva Marcello? Forse era solo un caso. Suonavano pezzi americani molto ritmati, “sincopati” diceva l’avvocato. Poi passarono ai classici napoletani, sempre con arrangiamenti americani. Quando sulle note di “Voce e notte” l’avvocato scoppiò a piangere, non riuscii a trattenere il mio stupore: Colajanni aveva un animo sensibile e io non me ne ero mai accorto. Giulia lo guardò con tenerezza. Con la mano gli accarezzò la fronte. Li osservai in silenzio, rapito da quella scena così commovente ed insolita per due persone come loro, decisamente poco inclini al sentimentalismo. Giulia meno di lui. Eppure. Quella canzone doveva significare sicuramente qualcosa per entrambi. Giulia più tardi mi spiegò che era la stessa che aveva fatto innamorare i suoi genitori. Di fronte al ricordo della moglie, scomparsa prematuramente proprio nel dare alla luce la loro unica figlia, Colajanni non ce la fece a mascherare il suo stato d’animo e si lasciò andare ad uno straziante sfogo emotivo suscitando la curiosità degli invitati più vicini al nostro tavolo. Lui non se ne curò e si abbandonò fino in fondo al doloroso ricordo, accompagnando le note con un leggero gesto della mano. Poi, rialzando il capo e incrociando il mio sguardo affettuoso, accennò un sorriso, amaro e stentato. Solo un’infelice incursione di Federico poteva spezzare quel malinconico incanto, quell’atmosfera così struggente e beffarda. Difatti, proprio in quell’istante, il giovane sposo, contro ogni benevolo senso dell’opportunismo, si materializzò al nostro tavolo, e vedendo Colajanni in quello stato, con gli occhi rossi di pianto, esclamò ad alta voce – Avvocà, ch’è successo? Non vi sentite bene? Chiamo qualcuno? – Colajanni girò il collo strangolato dalla cravatta di Marinella, e con la coda dell’occhio gli fece capire che era tutto a posto. Poi, con la mano gli fece segno di andare. Dove, lo intuimmo solo io e Giulia.
Angelo Cennamo