LA PELLE – Curzio Malaparte

 

La pelle - Malaparte

 

 

Il primo ottobre del 1943 è una data memorabile per la storia di Napoli: perché segna l’inizio della liberazione dell’Italia e dell’Europa intera dalle sofferenze della guerra, e perché proprio quello stesso giorno scoppia una terribile peste, una peste che non corrompe il corpo ma l’anima delle persone, e che da Napoli si diffonde in Italia e nel resto del continente. I soldati alleati ne rimanevano immuni tanto che il sospetto che fossero loro a portare il morbo, a costringere le donne a vendersi e gli uomini a calpestare il rispetto di sé, divenne presto una certezza. Curzio Malaparte, già autore del besteller Kaputt, scrive un romanzo reportage su quei giorni terribili, decide di intitolarlo La peste, ma nel 1947 l’uscita de La peste di Albert Camus lo costringe a rivedere la propria decisione e a cambiare il titolo in  La pelle.

L’esperienza di Malaparte ricorda quella di altri scrittori illustri che dalla guerra vissuta in prima persona, verrebbe da dire vissuta sulla propria pelle, trassero romanzi crudi ed appassionanti come questo. Ernest Hemingway, ad esempio, trasferì ricordi ed appunti della prima guerra mondiale, da lui combattuta sul fronte italiano, in Addio alle armi. Beppe Fenoglio rappresentò se stesso ne Il partigiano Johnny, il romanzo “anglo-italiano” che racconta la gloria e la ferocia della Resistenza nelle langhe piemontesi da una visuale diversa rispetto alle solite narrazioni sulla guerra civile.

La pelle è un viaggio lungo e struggente nella Napoli deturpata dagli orrori della seconda guerra mondiale. Il ritratto brutale, commovente e poetico di un’umanità sbandata, costretta a qualunque bassezza pur di sopravvivere “Durante la guerra si lottava per non morire…..con la liberazione si doveva lottare per vivere……lottare per vivere è una necessità vergognosa, può essere una cosa umiliante, orribile……Non è più lotta contro la schiavitù per la libertà, è lotta contro la fame ”. Malaparte ci conduce nei vicoli dei Quartieri Spagnoli, tra prostitute e lazzaroni che fanno a gara per comprare e rivendere soldati di colore, anche per poche ore, il tempo di trascinarli in un bar, ubriacarli e spogliarli di tutto quello che hanno addosso. Un grosso business che consentiva ai più lesti e intraprendenti di mettere da parte capitali ingenti.

“La libertà costa caro. Molto più caro della schiavitù. E non si paga né con l’oro, né col sangue, né con i più nobili sacrifici: ma con la vigliaccheria, la prostituzione, il tradimento, con tutto il marciume dell’animo umano”.

Il girone dantesco attraversato da Malaparte in compagnia di alti ufficiali americani, con i quali lo scrittore interloquisce per denunciare la crudeltà dei vincitori e difendere la dignità di quella plebe calpestata e vilipesa, comprende anche ambienti colti, intellettuali, spesso frequentati da aristocratici decaduti o da omosessuali trozkisti che leggono Proust e Sartre “Si faceva della pederastia credendo di fare del comunismo”. La scena della Figliata, l’antica cerimonia sacra del culto uraniano con la quale si rappresenta il parto di un uomo, ci riporta alle immagini della Napoli velata di Ozpetek; l’eruzione del Vesuvio con “Quella gengiva rossa che orlava i tetti” ai “Grafici d’asfalto” del Re pallido di Foster Wallace.

È certo assai più difficile perdere una guerra che vincerla. A vincere una guerra tutti son buoni, non tutti son capaci di perderla” è questo, in estrema sintesi, il messaggio triste e beffardo contenuto nello straordinario reportage di Malaparte, che come scrisse Milan Kundera “con le sue parole fa male a se stesso e agli altri”.

Angelo Cennamo

 

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