Prima di tutto la lingua. Leggere i romanzi di Andrea Camilleri è un’esperienza fuori dall’ordinario. Leggerli nella lingua originale, intendo dire – nulla di paragonabile rispetto alle versioni esportate in Inghilterra, Germania, Spagna e resto del mondo. Beati noi. Confesso di essermi avvicinato al maestro di Porto Empedocle con molto ritardo, dopo aver vinto un atteggiamento di inspiegabile riottosità, io che dopotutto sono meridionale, napoletano, e quindi abituato a confrontarmi con i testi dialettali. Ma ecco l’errore. Camilleri non scrive in dialetto, Camilleri scrive in italiano: è questa la grande scoperta. Scrive in una delle possibili declinazioni della lingua italiana, che è quella siciliana. Più o meno, o in diversa misura rispetto a romanzieri come Verga, Pirandello, Sciascia. Tutto ebbe origine da una promessa fatta al padre nelle sue ultime ore di vita. Il giovane Andrea confidò al genitore moribondo che gli sarebbe piaciuto diventare uno scrittore. L’uomo ascoltò con attenzione il racconto che Nenè gli sussurrò al capezzale, dopodiché suggerì al figlio di mettere quella storia per iscritto, esattamente come l’aveva raccontata a lui, nella stessa lingua. Promessa mantenuta. Quel miscuglio di italiano corrente e di siciliano lo chiamano vigatese, dal nome del paesino immaginario, Vigàta, dove l’autore colloca le sue trame. Eccezion fatta per i romanzi storici, Camilleri non scrive noir, ma libri gialli, autentici polizieschi, il cui protagonista, il commissario Montalbano, è diventato popolarissimo grazie soprattutto – in Italia si legge poco – ad una fiction televisiva. Quanto Luca Zingaretti si rispecchi nel Salvo Montalbano della carta scritta è difficile a dirsi. Di sicuro non gli somiglia fisicamente: quello uscito dalla penna di Camilleri ha baffi e capelli, non il cranio rasato dell’attore romano. Ma è solo un dettaglio. La simbiosi tra le due narrazioni è pressoché totale, per bellezza, colore, ritmo. Le avventure di Montalbano – nome ispirato dallo scrittore spagnolo Vazquez Montalban – vanno lette lentamente, possibilmente con la voce roca e affumicata del suo ideatore. Immaginando la stessa flemma, il disincanto di chi ha già visto tutto, la postura appesantita dalla veneranda età. In quelle note strascicate rivive la bellezza della Magna Graecia e della sua preziosa eredità. E’ così che io mi sono calato, abbandonato alla trama de La gita a Tindari, nelle sue atmosfere calde e sonnolente, nella luce accecante che bagna Vigàta come le acque cristalline del suo mare, e nel mistero che avvolge l’intricata vicenda sulla quale indagano il commissario Montalbano e il suo vice Mimì Augello: l’omicidio di un giovane fimminaro e la scomparsa di una coppia di vecchietti partiti per un pellegrinaggio al santuario della Madonna di Tindari “C’era un legame tra la scomparsa dei due vecchiareddri e l’ammazzatina del picciotto?”
Angelo Cennamo
bravo, bella recensione! anche se, come scrivi, nell’immaginario collettivo Montalbano É Zingaretti. (e Mimì è Mimì…)
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Grazie, Clara
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