CITTA’ DI MORTI – Herbert Lieberman

Città di morti - Herbert Lieberman

In principio fu Herbert Lieberman? Prima di tanti altri suoi colleghi oggi più conosciuti e venduti, da Patricia Cornwell a Jeffery Deaver, è stato lui a rimpinguare gli scaffali del genere thriller con una quindicina di romanzi, tra cui spiccano titoli come Nightbloom e Crawlspace. Quando venne pubblicato nel 1976, Città di morti riscosse grande successo soprattutto in Francia, dove divenne un vero e proprio oggetto di culto vincendo il prestigioso Grand Prix de Littérature Policière, ma passò quasi inosservato negli Usa per ragioni difficili da spiegare. Con qualche decennio di ritardo, il romanzo è sbarcato in Italia grazie a Minimumfax, editore specializzato nel ripescaggio di grandi scrittori dimenticati: Bernard Malamaud, Richard Yates, John Barth, tanto per citarne qualcuno.

La storia è ambientata nella New York degli anni Settanta, i peggiori forse dalla crisi di Wall Street per la delinquenza dilagante, per i numerosi morti ammazzati, da arma da fuoco come da eroina. Pochi i personaggi tra i quali si staglia la figura di Paul Konig, anatomopatologo e capo dei medici legali di New York, il più noto ed apprezzato perché nessuno meglio di lui sa leggere sui corpi dei morti le loro storie.  Le giornate del dott. Konig, che io ho immaginato come l’attore Ernest Borgnine –  il romanzo sembra la sceneggiatura di un meraviglioso film d’azione, per scrittura, ritmo, e per i dialoghi, assolutamente perfetti – sono a volte lente ed inconcludenti, altre volte cadenzate da macabre routine “Come molte altre, fiorenti imprese, quella di Paul Konig è un’attività ciclica. Ci sono stagioni fiacche e stagioni intense. Giorni fruttuosi e giorni infruttuosi”. Quello di Konig è di sicuro un brutto mestiere, brutto come lui – il nostro Paul – il medico, il padre, l’amico, il collega di lavoro Paul – è una persona scorbutica, irascibile, arrogante – un mestiere faticoso, senza orari e sottopagato “Faccio quello che quei fighetti figli di puttana di Park Avenue con i loro uffici di lusso non faranno mai. Faccio il lavoro sporco. Rassetto casa dopo la festa“. Konig si muove in un girone dantesco, tra obitori, squallide aule giudiziarie, uffici della polizia degradati che puzzano di sporcizia e dell’incuria burocratica, laboratori decrepiti “Ogni volta che intraprende quella discesa, ogni volta che entra in quel mattatoio, in quell’ossario dal quale esalano miasmi sempre più intensi, tutto il suo essere è pervaso dalla sensazione strana, eppure assolutamente genuina, di trovarsi di nuovo a casa“. La New York raccontata da Lieberman somiglia alla città tetra e violenta di Underworld di DeLillo e alla City on fire di Garth Risk Hallberg, romanzi ambientati negli stessi anni e con trame per certi versi contigue, quasi si trattasse di una trilogia. Al centro della storia due vicende: il ritrovamento di resti umani sulla riva di un fiume; il rapimento di Lolly, la figlia di Konig, uscita di casa cinque mesi prima e finita nelle mani di un pericoloso squilibrato. Nel libro, come è facile attendersi, abbondano una certa terminologia medica ed una serie di dettagli raccapriccianti che tuttavia non incupiscono la narrazione, non ne alterano la bellezza e il respiro ampio da grande romanzo, grande oltre qualunque classificazione di genere, perché, per chi non lo avesse ancora capito, Città di morti è una storia che trasuda amore e odio, con molteplici sottotracce perfettamente allineate al suo nucleo centrale. Viva Lieberman e viva Minimum fax che ce lo ha fatto conoscere.

Angelo Cennamo

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L’ASSASSINIO DEL COMMENDATORE – Murakami Haruki

 

L'ASSASSINIO DEL COMMENDATORE - Murakami

 

Mi hanno sempre affascinato i romanzi che parlano di quadri: Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde, Il Cardellino di Donna Tartt, La ragazza con l’orecchino di perla di Tracy Chevalier, La vedova Van Gogh di Camilo Sànchez. Ne L’assassinio del commendatore di Murakami Huraki la raffigurazione pittorica nasconde un mistero fitto intorno al quale si dipana una trama palpitante fin dalle prime pagine, prodigiosa – foriera di uno stupore che lascia il lettore in attesa di qualcosa che sta per accadere, lo si percepisce rigo dopo rigo, paragrafo dopo paragrafo – avvolta dalla solita aura magica che l’autore giapponese infonde alle sue narrazioni. Murakami si diverte a giocare con la verità, a mescolare la realtà con il sogno, e i lettori amano farsi guidare da lui in queste storie talvolta indecifrabili, sempre sospese tra il mito e il pragmatismo di una quotidianità lenta: i protagonisti di questo libro non hanno alcuna fretta di vivere, di lavorare, di muoversi, sembrano collocati fuori dal tempo, in una dimensione ovattata senza i rumori, i tic, le nevrosi della modernità. La voce narrante è quella di un giovane ritrattista, mai nominato, che dopo la separazione dalla moglie inizia un lungo vagabondaggio in auto, senza meta, per poi trasferirsi nella casa dove ha vissuto un noto pittore giapponese, padre di un suo compagno di accademia. Nella casa, costruita in un luogo isolato, tra i boschi, l’assenza del grande maestro, oggi ricoverato in un centro per anziani, diventa presenza attraverso il mobilio, i dischi di musica classica, i libri, e una tela molto speciale, imballata e nascosta in soffitta, una tela che riproduce una scena ispirata al Don Giovanni di Mozart. Vivere nella casa di Amada Tomohiko – questo il nome dell’artista – è stimolante per un pittore ancora alla ricerca di una propria identità e stufo di dipingere ritratti. Ma ci sono commissioni impossibili da rifiutare: un uomo sconosciuto presentatosi con lo pseudonimo di Menshiki, che scoprirà essere il suo dirimpettaio, chiede al protagonista di fargli il ritratto. E’ una richiesta pressante per la quale l’uomo, apparentemente facoltoso, colto, raffinato, è disposto a pagare qualunque cifra. Nel corso della storia, Menshiky acquisterà un ruolo decisivo, essenziale anche per la soluzione di altri misteri, fino a diventare il vero protagonista del romanzo. Chi è Menshiky? Cosa nasconde? È uno dei tre interrogativi del racconto, insieme alla vicenda del quadro e allo strano richiamo che di notte raggiunge la casa del pittore da una cripta forse millenaria, nascosta nel giardino. L’assassinio del commendatore è un thriller psicologico, una storia che ci parla della nostra fragilità interiore e della forza riparatrice dell’arte, ma anche di mondi paralleli, della linea invisibile che separa la verità dal sogno “Spesso non capiamo bene dove passa il confine tra ciò che è reale e ciò che non lo è” dice Menshiky in una delle scene più intense del romanzo. E’ la frase che racchiude il libro, il primo di un dittico destinato a ripetere il successo di altri capolavori come Norwegian wood, Kafka sulla spiaggia e 1Q84.

Angelo Cennamo

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IL RE DI DENARI – Sandrone Dazieri

Il re di denari - Sandrone Dazieri

Non credere a niente”

E’ la frase chiave di questo romanzo, scritta a caratteri grandi, in stampatello, anche sulla quarta di copertina – come mi piacciono le copertine con le scritte grandi: fa molto american novel. Dicevo che è la frase chiave perché leggendo, non solo l’ultimo libro ma l’intera trilogia, si scopre che in questa storia niente o quasi niente è come appare. Del resto, la missione di un thriller non è forse quella di spiazzare i lettori e di ribaltare ogni frammento di verità o di presunzione della verità? Con Il re di denari Sandrone Dazieri, sceneggiatore e autore di noir cimentatosi solo da qualche anno col genere thriller, ci riesce alla perfezione. Prima di addentrarci – molto poco – nella trama, per ovvie ragioni, è bene mettere in guardia i lettori e dire loro che la vicenda raccontata dallo scrittore cremonese parte da molto lontano, ovvero dal primo capitolo della serie, intitolato Uccidi il padre seguito poi da L’angelo; e che i protagonisti, Dante Torre e Colomba Caselli, sono gli stessi degli altri libri. Chi sono Dante e Colomba? Lei è una ex poliziotta scampata ad una serie di attentati dinamitardi e a svariate aggressioni. Lui è un ex ragazzo prodigio, nel senso che è prodigioso sopravvivere ad un sequestro di persona durato ben tredici anni, e rimanere chiuso in un silo, prigioniero di un’entità malefica, reale ma poco definita, denominata Il Padre. Della sua tragica infanzia, dei segni, delle cicatrici, nel corpo e nell’anima, che gli sono rimasti, Dante oggi ne ha fatto un mestiere: ritrova persone scomparse, scomparse come lui, torturate come lui, qualche volta uccise, come a lui per fortuna non è accaduto. Dante e Colomba sono una coppia borderline, che opera tra le pieghe della legalità, del possibile, del concesso, tra mille difficoltà, spesso ostacolata da poteri occulti che manovrano e corrompono chi invece dovrebbe far luce sulle drammatiche vicende raccontate. L’intera trilogia di Dazieri si muove nel nome del Padre, ruota intorno alla sua ombra misteriosa che incombe sul passato ma anche sul presente di Dante, prigioniero di un tempo che sembra non finire mai.

Il re di denari ha inizio dove la storia si era interrotta, l’indomani di quella esplosione al palasport di Venezia, e con il nome ricorrente di Leo Bonaccorso: uno sbirro o chi altro? Colomba ha lasciato la polizia da oltre un anno, trascorre il tempo a tentare di riprendersi dopo aver rischiato la morte.  Nel capanno degli attrezzi della sua casa innevata, nelle Marche, scopre un ragazzo autistico, sotto shock, imbrattato di sangue. Tommy, questo il nome del giovane, è sopravvissuto alla strage dei suoi familiari. L’identikit dell’assassino ha il volto del dieci di quadri: il re di denari. E Dante? E’ scomparso di nuovo, lotta tra la vita e la morte chissà dove, prigioniero forse di un complice del Padre. Ma non lo avevano tolto dalla scena? Sono solo alcuni dei misteri, fitti, fittissimi, che Dazieri semina nel corso della sua narrazione, sempre lucida, impetuosa, incalzante, e con un finale aperto.

Angelo Cennamo

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MATRIGNA – Teresa Ciabatti

MATRIGNA - Teresa Ciabatti

Era inverno quando mio fratello sparì.

Andrea aveva sei anni. Sua sorella Noemi, poco più grande di lui, lo teneva per mano durante quella festa di Carnevale che lo inghiottì per sempre.

Un anno dopo La più amata, Teresa Ciabatti torna in libreria con una nuova vicenda familiare, amara, lacerante, burrascosa, 205 pagine fitte di suggestioni e brividi. La Ciabatti è esperta di narrazioni familiari, sa raccontare i conflitti, i sentimenti più profondi che legano i figli alle madri e ai padri, i silenzi – che nella scrittura traduce con la parola “pausa” – e l’incomunicabilità che si perpetua fino a degenerare nei traumi. Non c’è scampo per Noemi, la voce narrante della storia, nella quale abbiamo la sensazione di ritrovare la stessa autrice del libro: quando Teresa Ciabatti scrive ci convinciamo che stia parlando di sé, della sua vita, o di una vita prossima alla sua. Lei è lì, nel racconto, con tutta se stessa: mente, sangue, cuore, e noi lettori non possiamo fare a meno di seguirla negli stessi luoghi; ci lasciamo guidare nel medesimo tormento, nel dubbio, nella disperazione, è il tracciato di una catarsi feconda, feconda perché sappiamo che di quella lettura rimarrà una macchia, un insegnamento, un’immagine. La scomparsa di Andrea è per il suo nucleo familiare una deflagrazione che si rinnova nel tempo, ma un tempo senza fine, un lutto che non smette di seminare dolore, angoscia, e follia: dove sarà finito il bambino biondo dagli occhi azzurri, bello, perfetto, coccolato, esibito, invidiato da Noemi al punto da desiderarne la morte?

Attenzione: nella mia memoria ingannevole, non garantisco che le cose siano andate così, non fidatevi.

Teresa-Noemi mette in guardia i lettori, li avverte prima di lanciare i dadi di questo gioco sapiente nel quale realtà e immaginazione si rincorrono, si alternano, fino ad intrecciarsi in una combinazione rothiana. Nella storia c’è un prima e un dopo, ripetuti salti temporali, ma la linea di demarcazione di questo tempo pensato non esiste, non si vede: tutto avviene, tutto è già accaduto. Noemi è bambina, poi adulta, poi un’adulta bambina inseguita dai fantasmi del passato. Gli studi universitari in città, il fidanzato “Guardandomi da fuori, chi avrebbe indovinato il mio guasto?”, infine il ritorno a casa, nel paesello di montagna, lo stesso dove si consumò la tragedia. Noemi rivede sua madre e quasi non la riconosce, è cambiata, dopo la morte del marito si è fidanzata con un ragazzo molto più giovane di lei, giovane solo per ragioni anagrafiche, un giovane vecchio, uno sfigato, forse un manipolatore in cerca di denaro. Luca ha forse le sembianze del bambino perduto? Tutto si mescola: le identità, le verità, le parole, quelle dette, quelle mai pronunciate. Questo è Matrigna, questo è il racconto che Teresa Ciabatti ha cesellato con una scrittura minimal, mai vischiosa, fluida come un torrente limpido e inarrestabile, a metà strada tra il postmoderno e la tradizione, con frasi brevi, millimetriche, che offrono al lettore il quadro estetico di una letteratura d’oltreoceano più che italiana.

Matrigna è un romanzo sull’assenza e sui ricordi, una storia di interrogativi inevasi che a tratti sfiora il noir, sempre vibrante, carica di introspezione e venata di poesia. Un libro nel quale molti ritroveranno brandelli del loro vissuto: gelosie, sensi di colpa, inganni, paure. Checché ne dica Nabokov, a questo serve la narrativa: a riconoscersi.

Angelo Cennamo

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IO SONO DOT – Joe R. Lansdale

 

Io sono Dot - Lansdale

Che si tratti di un’avventura di Hap e Leonard o di altro, le trame di Joe R. Lansdale ci tengono sempre di buonumore. Una forza creativa, multiforme, inesauribile, quella dello scrittore texano, che mescola al meglio i linguaggi della pop art, dando vita ad una giostra di suggestioni che inebriano i lettori trascinandoli in un luogo che esiste, che è reale, ma che nel contempo è del tutto immaginario. Sentimenti, corpi, auto, case, animali feroci o scoiattoli, ogni cosa ha contorni netti e i colori ci appaiono per quelli che sono. I libri di Lansdale sono colorati come i film dei supereroi della Warner Bros. Quanto Lansdale debba a un genio come Stan Lee è presto detto: è il fumetto il propellente delle sue narrazioni; bang, smack, poff, boom, l’onomatopeica della rissa e del salvataggio fa da corollario a storie avvincenti, scritte con la giusta leggerezza ma che leggere non sono. I libri di Lansdale sono giochi di magia, il trucco c’è ma lo conosce solo l’autore: a noi non resta che sederci e goderci lo spettacolo.

Dorothy Sherman, per tutti Dot, ha diciassette anni e vive in una roulotte con sua madre, la nonna, un fratellino più piccolo “Divoratore di Caccole”, e una sorellastra maltrattata dal compagno. Suo padre, una mattina di cinque anni prima, era uscito di casa per comprare le sigarette e non è più tornato. Per sbarcare il lunario, la ragazza serve sui pattini in un Drive-in della zona. Siamo nel Texas orientale, è qui che Lansdale colloca tutte le sue trame; luoghi malfamati dove la violenza e il razzismo la fanno da padroni. Il destino di Dot sembra segnato, la sua è una vita di soli sacrifici, misera, ma Dot la affronta a rotta di collo, senza arrendersi né soccombere. Le cose cambiano quando sbuca fuori dal nulla un tale che si presenta come lo zio Elbert, un ex galeotto, apparentemente un uomo inaffidabile, ma che nel corso del racconto si rivelerà il più saggio della famiglia. Io sono Dot è un romanzo divertente, come nella tradizione di Lansdale, scritto con la solita levità dietro la quale però si nascondono temi seri, impegnativi: la povertà, l’abbandono, la speranza, il sogno. La voce narrante è femminile come in un altro bel romanzo di qualche anno prima: Tramonto e polvere. Chi conosce questo mestiere sa che non si tratta di un semplice dettaglio: è una prerogativa dei grandi novelist quella di saper immedesimarsi in protagonisti di un altro sesso, per giunta adolescenti. Capita di rado. Di rado come ritrovarsi a Salerno insieme ad uno dei maggiori romanzieri americani. Scrivo di questo libro poche ore dopo aver incontrato Lansdale ed avergli esibito la mia copia di Io sono Dot perché me la autografasse: “To Angelo – Joe R. Lansdale”. Perfetto.

Angelo Cennamo

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UN GIORNO QUESTO DOLORE TI SARA’ UTILE – Peter Cameron

Un giorno questo dolore ti sarà utile - Peter Cameron

“Io mi sento me stesso solamente quando sono solo”

James Sveck è un giovane newyorchese, figlio di genitori divorziati. Il padre fa il manager a Wall Street, la madre tornerà a gestire la sua galleria d’arte moderna non appena si sarà ripresa dallo choc per la terza separazione, maturata addirittura nei giorni della luna di miele. James si divide tra lo studio e la galleria d’arte, dove finge di lavorare assieme ad un collaboratore anche lui scansafatiche, un omosessuale che chatta su internet per procurarsi appuntamenti al buio. E’ una vita solitaria, senza amici e con pochi interessi oltre la lettura. James ha informato i genitori che non intende andare all’università: è inutile, dice, si possono imparare un sacco di cose rimanendo a casa a leggere i romanzi di Trollope. La sua unica sponda di conversazione è la nonna, tra le poche persone che sa ascoltarlo senza giudicare. La solitudine che James si autoinfligge tuttavia desta preoccupazione, al punto che i suoi familiari decidono di spedirlo da una “strizzacervelli” perché ne indaghi le ragioni: non sarà mica diventato gay?

Un giorno questo dolore ti sarà utile – Questo dolore un giorno ti sarà utile – Tutto questo dolore ti sarà utile, un giorno: quando non ricordi il titolo di un libro vuol dire una sola cosa… – è il romanzo più celebre di Peter Cameron, scrittore americano vicino a Jonathan Franzen e a Jeffrey Eugenides non solo per motivi generazionali ma anche per la sensibilità e la delicatezza con le quali affronta le dinamiche familiari: incomprensioni, conflitti, invidie. L’emotività è il terreno di gioco sul quale Cameron riesce a dare il meglio di sé; uno spazio narrativo fatto di sfumature a volte impercettibili, e di silenzi più eloquenti di mille parole. L’infelicità di James è un sentimento comune a tanti adolescenti, come lui alla ricerca di una identità – anche sessuale – più definita possibile o facile da accettare. Il tema dell’omosessualità viene solo sfiorato ma c’è, lo si avverte. Il libro di Cameron è il più classico dei romanzi di formazione, immaginato e raccontato con la voce di un diciottenne; una storia che ci riporta ad altre declinazioni di questo genere, meglio riuscite e più interessanti di questa, da Il giovane Holden di Salinger a Il cardellino di Donna Tartt. Tenero, newyorchese, noioso.

Angelo Cennamo

 

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VINCOLI – Alle origini di Holt – Kent Haruf

VINCOLI - Kent Haruf

Nella note biografiche di Kent Haruf ritroviamo i tratti di molti altri scrittori americani giunti alla popolarità senza passare per accademie o ristretti circoli culturali. Prima di affermarsi come romanziere, infatti, Haruf – originario di Pueblo nel Colorado – si è arrabbattato in mille mestieri, dal bracciante agricolo all’operaio, è stato obiettore di coscienza durante la guerra in Vietnam, per poi laurearsi nel Nebraska non si sa bene in cosa. Di lui, in Italia, conoscevamo poco o nulla fino a quando la meritoria opera di scouting della NN editore non ha prodotto i suoi migliori risultati: Crepuscolo, Benedizione, Canto della pianura, Le nostre anime di notte.

Vincoli – Alle origini di Holt è il primo libro, Haruf lo pubblicò nel 1984. Oltre trent’anni dopo, sulla scia dei precedenti successi, è arrivato nelle nostre librerie carico di aspettative. Il romanzo racconta la storia di una famiglia dell’Iowa trasferitasi alla fine dell’Ottocento in Colorado, nella cittadina immaginaria di Holt, che nei primi anni del secolo – scrive l’autore – era poco più di una distesa sabbiosa con tre negozi, una pensione, un bar, il cimitero e una ventina di case. Holt, dunque, è ancora una volta al centro di una trama di Haruf. Holt come la Macondo di Garcia Marquez, il piccolo villaggio nel quale ciascuno ritrova la propria terra, le proprie origini. Chi ha letto anche gli altri romanzi sa bene che l’America di Haruf è lontana dai soliti circuiti dello show-business: è una nazione rurale, silenziosa, conservatrice ai limiti del bigottismo, popolata da mandriani e piccoli commercianti. Edith e Lyman Goodnough sono i figli  di un uomo prepotente, violento ed egoista, la cui vita è segnata da un brutto incidente: la lama di una mietitrice gli ha tranciato entrambe le mani. I due fratelli, orfani di madre, vivranno prigionieri del padre padrone sgobbando senza sosta tra campi di mais e mucche da mungere. Anni ed anni di giornate lente, monotone, vuote; quella dei due fratelli è una sudditanza avvilente, triste, priva di sussulti anche per i lettori che la osservano con sofferenza e con noia. Nelle prime pagine del romanzo, Edith ha ottanta anni e giace moribonda in un letto di ospedale a seguito di un incendio appiccato non si sa ancora da chi. La lunga storia della famiglia Goodnough viene raccontata da Sandy Roscoe, un vicino di casa che per Edith è stato quasi un figlio. E’ un racconto lungo, denso di dettagli talvolta inutili – la trama nella parte centrale sembra deragliare su fatti di scarso interesse – ma nel finale riprende quota dando il giusto senso al romanzo. Vincoli è un buon western con venature noir, un libro a tratti commovente e sicuramente ben scritto – ottima anche la traduzione di Fabio Cremonesi. La migrazione della famiglia Goodnough, raccontata nel primo capitolo, mi ha ricordato quella dei Peruzzi di Canale Mussolini di Antonio Pennacchi, diversamente pionieri dell’Agro Pontino negli anni del fascismo. Haruf ha saputo dare il giusto ritmo, lento come le giornate di Edith e di Lyman, ad una storia intensa, fatta perlopiù di sacrifici e di amarezze. Il risultato è discreto, ma manca la magia dei successivi romanzi, quelli che compongono la trilogia della Pianura, di cui Vincoli ne è in qualche modo l’embrione.

Angelo Cennamo

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IL MALE OSCURO – Giuseppe Berto

Il male oscuro - Berto

Quando Ernest Hemingway definì Giuseppe Berto tra i migliori scrittori italiani con Vittorini e Pavese, diversi romanzieri di quel tempo storsero il naso, molti furono rosi dall’invidia. Berto, del resto, non fece mai mistero del clima di ostilità alimentato intorno alla sua figura di uomo libero, estraneo alle solite conventicole, da una certa editoria dominante di sinistra. Nel 1964, all’età di cinquant’anni, dopo aver fatto i conti con una brutta malattia che lo aveva fiaccato nel fisico e nell’anima, Berto si ritira in un luogo isolato della Calabria, Capo Vaticano, e in poco più di due mesi butta giù di getto alcune centinaia di pagine poi racchiuse in un libro destinato a sconvolgere la letteratura italiana: Il male oscuro. E’ un non-romanzo, spiegherà lo scrittore nell’appendice al testo, che racconta la sua lunga lotta con il padre, una lotta durata sessant’anni. Il libro, che vinse sia il Premio Viareggio che il Campiello, per stessa ammissione dell’autore riflette due importanti precedenti della narrativa: La coscienza di Zeno di Italo Svevo e La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda, opera che ne ha ispirato non solo l’impianto narrativo ma anche il titolo:

“Era il male oscuro di cui le storie e le leggi e le universe discipline delle gran cattedre persistono a dover ignorare la causa, i modi: e lo si porta dentro di sé per tutto il fulgorato scoscendere d’una vita, più greve ogni giorno, immedicato”.

A differenza di questi due romanzi, il racconto di Berto non si limita tuttavia a descrivere una nevrosi, ma la incarna, le dà voce, la storia è come se si raccontasse da sola

E in effetti accade che fatti e pensieri sgorghino in gran parte automaticamente da quelle oscure profondità dell’essere dove la malattia prima e la cura poi sono andate a sfruculiarli fino a fargli venire questa immoderata voglia di esternarsi della quale mi sembra di essere passivo esecutore”

Il male oscuro, scritto secondo uno stile che Berto definirà “psicanalitico”, molto moderno, con una prosa scarna e una punteggiatura minimalista, per quanto affronti un tema serio e scabroso come la malattia, non è affatto un libro deprimente, e neppure noioso. Non mancano infatti spunti ironici, momenti di comicità che ne alleggeriscono la narrazione alternando toni, registri e stati d’animo in una perfetta sincronia di situazioni che comprendono ogni aspetto della vita quotidiana dell’autore: le difficoltà della professione di sceneggiatore, la disperata ricerca della gloria, la perenne mancanza di quattrini, il matrimonio litigioso con la giovane consorte “la ragazzetta”, oltre ovviamente ai sensi di colpa legati alla morte del padre, che condurranno lo scrittore alla nevrosi e alla psicanalisi

“Come ha dimostrato il padre mio che da vivo non contava più niente mentre appena morto o poco dopo ha ripreso a soverchiarmi…Proprio l’abbandono del padre in punto di morte avrebbe determinato il conflitto morale che mi ha condotto alla psiconevrosi, è quella la realtà orrenda dalla quale fuggo per rifugiarmi nella malattia” 

Il male oscuro è un libro struggente che ci riguarda tutti: padri, figli, amici, lavoratori, amanti. Scavando nella propria anima, Berto si mostra al lettore per quello che è: un uomo fragile, disperato, ma desideroso di ritornare a vivere, per il bene di se stesso e soprattutto di sua figlia, nella quale rivede la propria infanzia e la paternità sconosciuta di quell’uomo severo e scorbutico che morendo lo ha scaraventato nell’abisso. Il rapporto difficile tra Berto e suo padre, ma anche gli stenti di una professione povera di successi mi hanno ricordato la parabola di John Fante, il giovane scrittore squattrinato che sogna la gloria e che in uno dei suoi capolavori, La confraternita dell’uva, si scontra con il vecchio Nick Molise, il padre padrone che non gli perdona di averlo abbandonato per inseguire il successo.

“Ed ecco che piango un’altra volta sul mio fallimento e sconforto, e sulla mia solitudine al limite del nulla”

Angelo Cennamo

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INFINITE JEST – David Foster Wallace

INFINITE JEST NEW

“Mi siedono in un ufficio, sono circondato da teste e corpi. La mia postura segue consciamente la forma della sedia.”

Maneggiare un romanzo di David Foster Wallace è un’esperienza meta-letteraria, l’esplorazione di un luogo sconosciuto, abitato da un’umanità esasperata e assuefatta al peggio. Perché uno scrittore ostico come Foster Wallace piace così tanto? Perché in quella oscurità ritroviamo le nostre stesse insicurezze. Perché “non esisteva scrittore vivente dotato di un virtuosismo retorico più autorevole, emozionante e inventivo del suo”

I tergicristalli dipingono arcobaleni neri sul parabrezza luccicante dei taxi.”

Infinite Jest  è un libro che per la sua mole – nella versione italiana 1.280 pagine fittissime oltre centinaia di note – incute terrore e scoraggia anche i cultori più incalliti della parola scritta. Lasciare però quel malloppo di carta in bella vista sulla scrivania alla stregua di un fermacarte o di un vecchio almanacco, temendo che la smisurata lunghezza possa annoiare o peggio logorare i nervi fin dai primi capitoli – può accadere se non si è rodati al postmoderno spinto – è più di un peccato veniale: è come sottrarsi a un’operazione rigenerativa che dopo tutto finisce per amplificare la nostra qualità di lettori – dopo aver letto Wallace si diventa lettori terribilmente esigenti. Una catarsi dunque. Ma prima della catarsi, il supplizio, sfiancante, ai limiti della sopportazione.

Infinite Jest  è un romanzo meravigliosamente faticoso: nei momenti di scoramento si ha voglia di lanciare il mattone contro la parete della camera da letto e maledire il critico della rivista o l’amico – in questo caso nemico – che ne ha consigliato l’acquisto. Ma dura poco. Dura poco perché dai libri di Wallace e dallo stupore che alimentano le sue trame è difficile stare lontani.

Infinite Jest  è un murale di emozioni profonde, disegnato con una prosa schizofrenica e così argomentativa da cancellare la distinzione tra saggio e romanzo. Un libro fluviale senza trama e senza un vero finale, che racconta di una società rassegnata al proprio annientamento psicofisico.

In un tempo imprecisato e sponsorizzato gli Usa avranno inglobato il Messico e il Canada in una supernazione chiamata ONAN. Wallace ambienta il romanzo all’interno dell’ETA ( Enfield Tennis Academy), un liceo per giovani promesse del tennis che sognano di  giocare nell’ATP “lo Show”, e all’Ennet House, un centro di riabilitazione per alcolisti e drogati che puzza del tempo che passa. Come tutti i protagonisti della storia, i ragazzi dell’ETA sono sopraffatti dalla noia e invischiati nell’uso di sostanze ricreative.

Infinite Jest è anche il titolo di un film misterioso che ipnotizza gli spettatori condannandoli ad una pericolosa assuefazione. Un’arma letale che può cambiare il corso degli eventi. Eccoci  dunque al tema del romanzo: la dipendenza. Dipendenza da qualunque cosa, non solo dall’alcol e dalle droghe, forse anche dallo stesso libro che imprigiona il lettore più intrepido fino alle note del post scriptum in una sorta di stato catatonico: il magnetismo di Wallace è un argomento da approfondire, da studiare. Dicevamo della trama come espediente dell’autore per raccontare molto altro attraverso divagazioni su fatti, luoghi e personaggi, seguendo i consueti schemi labirintici ai quali the genius ci ha abituato per guidarci nel suo mondo enigmatico e ricco di suggestioni: dilatazioni spazio-temporali, periodi lunghi e frammentati senza mai un capoverso, punteggiatura fantasiosa. Un tracciato avventuroso che toglie il fiato, lascia attoniti. Del realismo isterico di Wallace e dell’impossibilità di cogliere fino in fondo tutte le sfaccettature della sua grammatica mentale non si può dire di più. La cosa più faticosa della mia vita dice Edoardo Nesi che del libro ha curato la traduzione italiana. Cos’altro aggiungere: Infinte Jest  è un romanzo monumentale – in ogni senso: il tomo è alto quanto il palmo di una mano, scomodo anche nell’approccio fisico – per lettori coraggiosi e un po’ incoscienti, un’opera superba che attraversa molti generi, un classico della letteratura dei nostri tempi.

Angelo Cennamo                                       

 

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IO E COLAJANNI

 

IO E COLAJANNI FOTO

 

L’appuntamento con Marta era alle 17,30, davanti al portone di corso Umberto. Civico 253. Da Santa Lucia, dove abitavo, avrei impiegato circa 20 minuti a piedi. L’avvocato Domenico Colajanni era molto amico di suo marito. Quando ricevette la notizia della mia laurea, Marta volle farmi un regalo: portarmi nel suo studio per farmi iniziare la pratica forense – Vedrai che Mimì ti prende – disse con tono deciso – di giovani preparati come te ce ne sono pochi in giro – Marta mi conosceva fin da bambino, abitava anche lei a Santa Lucia. Spesso veniva da noi per farsi cucire gli abiti da mia madre, che all’occorrenza faceva anche la cuoca, la baby sitter e tanti altri mestieri. Mio padre, invece, gestiva un’edicola a Monte Calvario. A casa nostra di soldi ne giravano pochi, e così, per seguire i corsi universitari, anche io cercavo di arrangiarmi come potevo, per esempio dando ripetizioni di italiano e latino o sbrigando delle commissioni nel quartiere. Non volevo pesare sui miei genitori, che oltre a me dovevano provvedere all’istruzione di Nicolino e Tommaso, i miei fratelli più piccoli.

Colajanni a Napoli era una celebrità, il solo pensiero di varcare la soglia del suo studio mi faceva tremare le gambe. Perché non sfigurassi, mia madre pensò di aggiustare un vecchio vestito che suo marito indossava nelle ricorrenze più importanti: un gessato blu scuro a due bottoni. Il collo era un po’ consumato, ma almeno di sera si notava poco. Le scarpe, seminuove, erano le stesse che avevo indossato all’esame di laurea poche settimane prima. Me le aveva regalate zio Mario, il fratello di mamma, venuto a vivere da noi dopo la morte della moglie Ines. Con la cravatta però volli scialare. Ne avevo adocchiata una bellissima nella vetrina di Marinella, a punta di spillo. Con i pochi risparmi che mi erano rimasti decisi di regalarmela senza farlo sapere a nessuno. Quella cravatta, da sola, valeva più del vestito, delle scarpe e di tutto il resto. Ma si trattò di un buon investimento; sì perché Colajanni, non appena la vide, sobbalzò dalla sedia – Perbacco! La sua cravatta è davvero bella. Dove l’ha comprata? – Da Marinella – risposi io, simulando una certa familiarità con il negozio più chic di Riviera di Chiaia – Hai capito? Si tratta bene il mio giovane collega – Per fortuna che non aveva ancora visto il collo consumato del gessato, la penombra dello studio mi aveva per il momento risparmiato l’imbarazzo – Marta mi ha parlato molto bene di lei, sa? Ma temo di non poterla accontentare: ho già tre ragazzi con me e non saprei dove collocarla. Ad ogni modo, può rimanere qui qualche giorno, nel frattempo avrò premura io stesso di trovarle una buona sistemazione in un altro studio – D’accordo avvocato, ma non vorrei disturbare – dissi, sorpreso dalla buona accoglienza – Nessun disturbo, caro….come ha detto che si chiama? – Eduardo, Eduardo Scalera – Chinò il capo in segno di riflessione, un attimo dopo aggiunse – Facciamo così, per il momento può sedersi alla scrivania nella prima stanza, quella adiacente alla sala d’attesa. Irene le mostrerà il posto – Prima di indirizzarmi da Irene, la segretaria dello studio, Colajanni volle però presentarmi gli altri praticanti che mi avevano preceduto. I primi due, Marco e Federico, erano alti e magri, con gli occhiali da vista molto spessi. Entrambi abitavano al Vomero. Il terzo, Manfredi, grassottello e dall’andatura goffa, prima di laurearsi in legge aveva sostenuto una decina di esami a medicina, e per questo lo avevano soprannominato: “ ‘o duttor”.

Al momento delle presentazioni, i miei colleghi si guardarono di soppiatto, quasi infastiditi dal mio arrivo. Irene lo intuì, ma per non farmi sentire a disagio semplificò i convenevoli con uno dei suoi moniti – Forza, a lavoro, che domani in tribunale sarà una giornata dura! – In tribunale, io? – Certo, verrai anche tu – disse Irene. A differenza di Colajanni, Irene dava del tu a tutti, tranne al suo datore di lavoro, al quale si rivolgeva con il “voi” – Perché, l’avvocato non ti ha detto niente? – Be’, veramente no – dissi, intimorito dal suo fare militaresco – Allora ci penserò io –  Dopo pochi minuti, entrò nella stanza e mise sulla mia scrivania un fascicolo che aveva estrapolato dallo scaffale del corridoio. C’era scritto: Tribunale di Napoli. E più in basso: Perrone +1 contro Annarumma Fabio – E’ un’azione di reintegra – mi spiegò, supponendo che un fresco laureato come me potesse già comprendere il da farsi. L’ottimismo di Irene sembrò pareggiare il mio disorientamento. Osservai con molto imbarazzo quel malloppo di atti e di documenti, intervallati da appunti scritti a mano. Mentre scorrevo l’indice degli atti, fui colto di sorpresa dall’avvocato che era appena entrato nella stanza – Bravo, vedo che comincia nella maniera giusta – Colajanni mi guardava sorridendo, con la sigaretta tra i denti – Non si preoccupi, so bene a cosa sta pensando. Ma dovrà solo mettere in ordine cronologico le carte del processo, poi domani, in udienza, vedrà il resto – Alle nove e mezza Irene mi avvisò che potevo andare via, suggerendomi di fare un salto nella stanza del capo. Colajanni, che aveva appena acceso l’ennesima sigaretta, mi fece segno di sedermi – Allora giovanotto, come le sembra questo posto? – Sa, è la prima volta che entro in uno studio legale, ma è esattamente come me l’immaginavo. Prima mi ha detto che devo venire in udienza con lei, domani – Certo, dove crede che si impari la professione? Ci vediamo a Castel Capuano, alle nove in punto, alla prima Sezione civile. Mi raccomando, alla puntualità ci tengo – Anche io – risposi, credendo di fargli cosa gradita. Ma proprio in quel momento lo squillo del telefono coprì le mie parole. La mente di Colajanni stava per volare altrove, così decisi di guadagnare l’uscita dello studio per non disturbare la conversazione, che, a occhio, sembrava alquanto piacevole. Tornando a casa, presi una pizza “a libretto” all’angolo del Rettifilo, da Orazio. La divorai in un attimo pensando al pomeriggio appena trascorso. Ero stordito da tutte quelle chiacchiere, dall’ambiente nuovo per me, ma al tempo stesso felice. Avevo conosciuto il più famoso avvocato di Napoli e l’indomani in Tribunale mi attendeva una giornata di lavoro assieme a lui.

Nei corridoi bui di Castel Capuano l’odore del marmo consumato si mescolava a quello del dopobarba degli avvocati, fresco ed intenso, in linea con l’eleganza che ostentavano. Non erano ancora le nove ed attendevo con impazienza Colajanni sulla prima scalinata dell’ingresso. L’avvocato era appena arrivato, la sua voce lo precedeva nel cortile centrale. Con lui c’erano Marco e “’o duttor”. Più indietro si attardava Federico. Colajanni sorrideva a destra e a manca, stringendo le mani di altri colleghi che gareggiavano quasi per salutarlo. Il vestito color cachi faceva pandant con i mocassini testa di moro e la borsa di pelle marrone che stringeva sotto il braccio. Sulla camicia, rigorosamente bianca, risaltava una cravatta a fantasia, con pallini bianchi e blu, e dal taschino della giacca si intravedeva un fazzoletto di seta bianca. Imparai presto che quel fazzoletto si chiama “pochette”. Tra le labbra stringeva l’immancabile sigaretta, forse la prima della giornata. Appena mi vide, con la mano mi fece segno di seguirlo, mimando il gesto di bere; capii che intendeva portarmi al bar – Eduà, pigliamoci ‘o cafè – senza rendersene conto era passato al tu. Ne ebbi piacere, cominciavo ad ambientarmi. Il bar di fronte al Tribunale era affollatissimo di avvocati, di loro clienti e di testimoni. Tra un sorso e l’altro, nel marasma generale, si sentivano gli inciuci e i suggerimenti per le udienze che di lì a poco sarebbero iniziate. “Dite così…..anzi no, questo non lo dite……se vi chiedono dei soldi, rispondete che non li avete presi…..” quel posto sembrava un suk arabo – Eduà, le cause cominciano al bar – mi spiegò Colajanni, vedendomi spaesato in mezzo a quella confusione. Poi prendendomi sotto il braccio mi indicò un collega – Vedi, quello è l’avvocato Morrone, è un caro amico mio. Tempo fa era alla ricerca di un praticante. Gli farò il tuo nome – Grazie, risposi io, un po’ dispiaciuto di non poter continuare il tirocinio con lui. Non appena uscimmo dal bar, Colajanni si mise all’opera – Marco, tu e Federico avviatevi da D’Onofrio. Manfredi, tu preoccupati di quelle copie in cancelleria. Eduardo viene con me da Cirillo per la prova testimoniale. Quando avrete finito, raggiungeteci – Avevo l’adrenalina a mille, e quel caffè non mi aveva di certo calmato.

Cirillo è nu scassacazz’ – disse l’avvocato, salendo le scale a passo svelto – i testimoni li intimorisce perché è sempre convinto che siano falsi. Qualche volta ha pure ragione. Però, dico io, a te che te ne fotte. Fai il tuo mestiere e lascia perdere! Eduà, tu non ti muovere da vicino a me e guarda attentamente quello che scrivo sul verbale. – Colajanni mi aveva impartito la sua prima lezione, e cioè che la procedura vera è molto diversa da quella studiata sui testi universitari – Capece Vincenzo e Capece Antonietta! – gridò l’avvocato Caliulo, facendosi largo nell’aula. Caliulo, bassino, col naso a patata e peloso, era il nostro avversario; i fratelli Capece, i suoi testimoni. I nostri erano stati già sentiti in una precedente udienza – Capece Vincenzo e Capece Antonietta! – continuava Caliulo – Alfrè, ma sti testimoni li hai citati o no? – chiese Colajanni – Mimì, per la verità no. Però mi avevano assicurato che sarebbero venuti – Alle 10,30 i fratelli Capece non erano ancora comparsi. A quel punto, Colajanni concordò con il suo avversario un rinvio per la prosecuzione della prova testi – Avvocato – dissi, richiamandolo in un angolo – ma se il collega i testimoni non li ha citati per l’udienza, perché non ha fatto rilevare al giudice istruttore l’omessa notifica per ottenere la decadenza dell’avversario dalla prova testimoniale? – La mia osservazione era tecnicamente ineccepibile, ma, da praticante inesperto, ignoravo che potessero esistere anche altre norme, come dire: di buon vicinato, oltre a quelle codificate – Vedi, Eduardo – mi spiegò Colajanni – tu dici una cosa giusta, anzi sacrosanta, in punta di diritto. Ma devi capire che con i colleghi, specialmente con quelli amici, non è corretto sollevare eccezioni come questa. A tutti può capitare di dimenticare un adempimento, no? Oggi è toccato al collega Caliulo, domani potrebbe toccare a me. Ricordati che i clienti passano ma i colleghi restano – In meno di un’ora, Colajanni mi aveva già impartito due lezioni di vita forense sconosciute a qualunque autore giuridico: le cause iniziano al bar, la prima; non è corretto approfittare di un collega in difficoltà, la seconda. Il suo ascendente su di me si era di colpo decuplicato. La causa fu rinviata ad una successiva udienza e l’avvocato Caliulo abbracciò “Mimì” in segno di gratitudine, invitandolo a prendere un caffè. E siamo a due – Eduà, vieni pure tu…Alfrè, però stavolta pago io – disse l’avvocato rivolgendosi al collega Caliulo – A proposito, voglio presentarti il giovane collega Scalera, Eduardo Scalera. Vedrai che tra un po’ ne sentiremo parlare: è uno fino fino – disse, segnandosi la guancia con il pollice – pensa che prima, in udienza, voleva farti decadere dalla prova perché non avevi citato i testimoni – Caliulo sorrise – Scalera, mm, ma sei per caso parente del dott. Scalera, il cardiologo che sta a Fuorigrotta? – mi chiese. Avrei voluto dirgli di sì, ma poi – No, non lo conosco – Scusatemi – intervenne Colajanni – Eduà, c’è il collega Morrone, vieni che gli chiediamo quella cosa – Mariooo! – gridò l’avvocato, alzando il braccio – non te ne andare, devo parlarti. – Raggiuntolo, prima lo abbracciò, poi fece le presentazioni – Mario, lui è il giovane collega Scalera. E’ venuto ieri al mio studio per iniziare il praticantato, ma io non ho molto spazio e allora… se tu potessi……sai è molto preparato, non per dire, ma è un ragazzo in gamba – Non lo metto in dubbio – disse Morrone – del resto, per stare da te non può che essere così. Ma vedi, Mimì, sto traslocando e al nuovo studio dovrebbe venire la figlia del notaio Cicalese, glielo avevo promesso. E poi Gianni e Stefania stanno ancora con me; quei due dicono sempre che se ne vanno e non se ne vanno mai. Mi dispiace tanto. Ma, se non ricordo male, Guido è alla ricerca di un collaboratore – Chi, Guido Caracciolo? – domandò Colajanni – Sì, lui – rispose Morrone – Non sia mai! Se lo mandiamo da quell’azzeccagarbugli non imparerà neppure a scrivere una lettera. No, non se ne parla proprio. Senti a me, Eduà, mò vedo io come risolvere la questione. Vorrà dire che ci stringiamo, e un posto per te lo facciamo uscire lo stesso – In quel momento avrei voluto afferrargli la testa e dargli un bacio in fronte, ma mi uscì solo un timido e commosso – Grazie di cuore, avvocato – Meglio così – concluse Morrone – a proposito – domandò – il caffè lo avete già preso? – Sì, grazie – dissi, pensando di rispondere anche per conto di Colajanni. Ma lui, nel frattempo, aveva già messo il braccio sulla spalla del collega e con l’altra mano mi fece segno di seguirlo. I caffè erano già arrivati a tre e la mattinata non volgeva ancora al termine. Alla mezza, dopo aver simulato di bere una quinta tazzina, tornai a casa elettrizzato – Eduà, ma che c’hai la febbre? – chiese mia madre vedendomi stravolto – No mammà, è solo felicità – le dissi, digrignando i denti.

Angelo Cennamo

 

 

 

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