
L’appuntamento con Marta era alle 17,30, davanti al portone di corso Umberto. Civico 253. Da Santa Lucia, dove abitavo, avrei impiegato circa 20 minuti a piedi. L’avvocato Domenico Colajanni era molto amico di suo marito. Quando ricevette la notizia della mia laurea, Marta volle farmi un regalo: portarmi nel suo studio per farmi iniziare la pratica forense – Vedrai che Mimì ti prende – disse con tono deciso – di giovani preparati come te ce ne sono pochi in giro – Marta mi conosceva fin da bambino, abitava anche lei a Santa Lucia. Spesso veniva da noi per farsi cucire gli abiti da mia madre, che all’occorrenza faceva anche la cuoca, la baby sitter e tanti altri mestieri. Mio padre, invece, gestiva un’edicola a Monte Calvario. A casa nostra di soldi ne giravano pochi, e così, per seguire i corsi universitari, anche io cercavo di arrangiarmi come potevo, per esempio dando ripetizioni di italiano e latino o sbrigando delle commissioni nel quartiere. Non volevo pesare sui miei genitori, che oltre a me dovevano provvedere all’istruzione di Nicolino e Tommaso, i miei fratelli più piccoli.
Colajanni a Napoli era una celebrità, il solo pensiero di varcare la soglia del suo studio mi faceva tremare le gambe. Perché non sfigurassi, mia madre pensò di aggiustare un vecchio vestito che suo marito indossava nelle ricorrenze più importanti: un gessato blu scuro a due bottoni. Il collo era un po’ consumato, ma almeno di sera si notava poco. Le scarpe, seminuove, erano le stesse che avevo indossato all’esame di laurea poche settimane prima. Me le aveva regalate zio Mario, il fratello di mamma, venuto a vivere da noi dopo la morte della moglie Ines. Con la cravatta però volli scialare. Ne avevo adocchiata una bellissima nella vetrina di Marinella, a punta di spillo. Con i pochi risparmi che mi erano rimasti decisi di regalarmela senza farlo sapere a nessuno. Quella cravatta, da sola, valeva più del vestito, delle scarpe e di tutto il resto. Ma si trattò di un buon investimento; sì perché Colajanni, non appena la vide, sobbalzò dalla sedia – Perbacco! La sua cravatta è davvero bella. Dove l’ha comprata? – Da Marinella – risposi io, simulando una certa familiarità con il negozio più chic di Riviera di Chiaia – Hai capito? Si tratta bene il mio giovane collega – Per fortuna che non aveva ancora visto il collo consumato del gessato, la penombra dello studio mi aveva per il momento risparmiato l’imbarazzo – Marta mi ha parlato molto bene di lei, sa? Ma temo di non poterla accontentare: ho già tre ragazzi con me e non saprei dove collocarla. Ad ogni modo, può rimanere qui qualche giorno, nel frattempo avrò premura io stesso di trovarle una buona sistemazione in un altro studio – D’accordo avvocato, ma non vorrei disturbare – dissi, sorpreso dalla buona accoglienza – Nessun disturbo, caro….come ha detto che si chiama? – Eduardo, Eduardo Scalera – Chinò il capo in segno di riflessione, un attimo dopo aggiunse – Facciamo così, per il momento può sedersi alla scrivania nella prima stanza, quella adiacente alla sala d’attesa. Irene le mostrerà il posto – Prima di indirizzarmi da Irene, la segretaria dello studio, Colajanni volle però presentarmi gli altri praticanti che mi avevano preceduto. I primi due, Marco e Federico, erano alti e magri, con gli occhiali da vista molto spessi. Entrambi abitavano al Vomero. Il terzo, Manfredi, grassottello e dall’andatura goffa, prima di laurearsi in legge aveva sostenuto una decina di esami a medicina, e per questo lo avevano soprannominato: “ ‘o duttor”.
Al momento delle presentazioni, i miei colleghi si guardarono di soppiatto, quasi infastiditi dal mio arrivo. Irene lo intuì, ma per non farmi sentire a disagio semplificò i convenevoli con uno dei suoi moniti – Forza, a lavoro, che domani in tribunale sarà una giornata dura! – In tribunale, io? – Certo, verrai anche tu – disse Irene. A differenza di Colajanni, Irene dava del tu a tutti, tranne al suo datore di lavoro, al quale si rivolgeva con il “voi” – Perché, l’avvocato non ti ha detto niente? – Be’, veramente no – dissi, intimorito dal suo fare militaresco – Allora ci penserò io – Dopo pochi minuti, entrò nella stanza e mise sulla mia scrivania un fascicolo che aveva estrapolato dallo scaffale del corridoio. C’era scritto: Tribunale di Napoli. E più in basso: Perrone +1 contro Annarumma Fabio – E’ un’azione di reintegra – mi spiegò, supponendo che un fresco laureato come me potesse già comprendere il da farsi. L’ottimismo di Irene sembrò pareggiare il mio disorientamento. Osservai con molto imbarazzo quel malloppo di atti e di documenti, intervallati da appunti scritti a mano. Mentre scorrevo l’indice degli atti, fui colto di sorpresa dall’avvocato che era appena entrato nella stanza – Bravo, vedo che comincia nella maniera giusta – Colajanni mi guardava sorridendo, con la sigaretta tra i denti – Non si preoccupi, so bene a cosa sta pensando. Ma dovrà solo mettere in ordine cronologico le carte del processo, poi domani, in udienza, vedrà il resto – Alle nove e mezza Irene mi avvisò che potevo andare via, suggerendomi di fare un salto nella stanza del capo. Colajanni, che aveva appena acceso l’ennesima sigaretta, mi fece segno di sedermi – Allora giovanotto, come le sembra questo posto? – Sa, è la prima volta che entro in uno studio legale, ma è esattamente come me l’immaginavo. Prima mi ha detto che devo venire in udienza con lei, domani – Certo, dove crede che si impari la professione? Ci vediamo a Castel Capuano, alle nove in punto, alla prima Sezione civile. Mi raccomando, alla puntualità ci tengo – Anche io – risposi, credendo di fargli cosa gradita. Ma proprio in quel momento lo squillo del telefono coprì le mie parole. La mente di Colajanni stava per volare altrove, così decisi di guadagnare l’uscita dello studio per non disturbare la conversazione, che, a occhio, sembrava alquanto piacevole. Tornando a casa, presi una pizza “a libretto” all’angolo del Rettifilo, da Orazio. La divorai in un attimo pensando al pomeriggio appena trascorso. Ero stordito da tutte quelle chiacchiere, dall’ambiente nuovo per me, ma al tempo stesso felice. Avevo conosciuto il più famoso avvocato di Napoli e l’indomani in Tribunale mi attendeva una giornata di lavoro assieme a lui.
Nei corridoi bui di Castel Capuano l’odore del marmo consumato si mescolava a quello del dopobarba degli avvocati, fresco ed intenso, in linea con l’eleganza che ostentavano. Non erano ancora le nove ed attendevo con impazienza Colajanni sulla prima scalinata dell’ingresso. L’avvocato era appena arrivato, la sua voce lo precedeva nel cortile centrale. Con lui c’erano Marco e “’o duttor”. Più indietro si attardava Federico. Colajanni sorrideva a destra e a manca, stringendo le mani di altri colleghi che gareggiavano quasi per salutarlo. Il vestito color cachi faceva pandant con i mocassini testa di moro e la borsa di pelle marrone che stringeva sotto il braccio. Sulla camicia, rigorosamente bianca, risaltava una cravatta a fantasia, con pallini bianchi e blu, e dal taschino della giacca si intravedeva un fazzoletto di seta bianca. Imparai presto che quel fazzoletto si chiama “pochette”. Tra le labbra stringeva l’immancabile sigaretta, forse la prima della giornata. Appena mi vide, con la mano mi fece segno di seguirlo, mimando il gesto di bere; capii che intendeva portarmi al bar – Eduà, pigliamoci ‘o cafè – senza rendersene conto era passato al tu. Ne ebbi piacere, cominciavo ad ambientarmi. Il bar di fronte al Tribunale era affollatissimo di avvocati, di loro clienti e di testimoni. Tra un sorso e l’altro, nel marasma generale, si sentivano gli inciuci e i suggerimenti per le udienze che di lì a poco sarebbero iniziate. “Dite così…..anzi no, questo non lo dite……se vi chiedono dei soldi, rispondete che non li avete presi…..” quel posto sembrava un suk arabo – Eduà, le cause cominciano al bar – mi spiegò Colajanni, vedendomi spaesato in mezzo a quella confusione. Poi prendendomi sotto il braccio mi indicò un collega – Vedi, quello è l’avvocato Morrone, è un caro amico mio. Tempo fa era alla ricerca di un praticante. Gli farò il tuo nome – Grazie, risposi io, un po’ dispiaciuto di non poter continuare il tirocinio con lui. Non appena uscimmo dal bar, Colajanni si mise all’opera – Marco, tu e Federico avviatevi da D’Onofrio. Manfredi, tu preoccupati di quelle copie in cancelleria. Eduardo viene con me da Cirillo per la prova testimoniale. Quando avrete finito, raggiungeteci – Avevo l’adrenalina a mille, e quel caffè non mi aveva di certo calmato.
Cirillo è nu scassacazz’ – disse l’avvocato, salendo le scale a passo svelto – i testimoni li intimorisce perché è sempre convinto che siano falsi. Qualche volta ha pure ragione. Però, dico io, a te che te ne fotte. Fai il tuo mestiere e lascia perdere! Eduà, tu non ti muovere da vicino a me e guarda attentamente quello che scrivo sul verbale. – Colajanni mi aveva impartito la sua prima lezione, e cioè che la procedura vera è molto diversa da quella studiata sui testi universitari – Capece Vincenzo e Capece Antonietta! – gridò l’avvocato Caliulo, facendosi largo nell’aula. Caliulo, bassino, col naso a patata e peloso, era il nostro avversario; i fratelli Capece, i suoi testimoni. I nostri erano stati già sentiti in una precedente udienza – Capece Vincenzo e Capece Antonietta! – continuava Caliulo – Alfrè, ma sti testimoni li hai citati o no? – chiese Colajanni – Mimì, per la verità no. Però mi avevano assicurato che sarebbero venuti – Alle 10,30 i fratelli Capece non erano ancora comparsi. A quel punto, Colajanni concordò con il suo avversario un rinvio per la prosecuzione della prova testi – Avvocato – dissi, richiamandolo in un angolo – ma se il collega i testimoni non li ha citati per l’udienza, perché non ha fatto rilevare al giudice istruttore l’omessa notifica per ottenere la decadenza dell’avversario dalla prova testimoniale? – La mia osservazione era tecnicamente ineccepibile, ma, da praticante inesperto, ignoravo che potessero esistere anche altre norme, come dire: di buon vicinato, oltre a quelle codificate – Vedi, Eduardo – mi spiegò Colajanni – tu dici una cosa giusta, anzi sacrosanta, in punta di diritto. Ma devi capire che con i colleghi, specialmente con quelli amici, non è corretto sollevare eccezioni come questa. A tutti può capitare di dimenticare un adempimento, no? Oggi è toccato al collega Caliulo, domani potrebbe toccare a me. Ricordati che i clienti passano ma i colleghi restano – In meno di un’ora, Colajanni mi aveva già impartito due lezioni di vita forense sconosciute a qualunque autore giuridico: le cause iniziano al bar, la prima; non è corretto approfittare di un collega in difficoltà, la seconda. Il suo ascendente su di me si era di colpo decuplicato. La causa fu rinviata ad una successiva udienza e l’avvocato Caliulo abbracciò “Mimì” in segno di gratitudine, invitandolo a prendere un caffè. E siamo a due – Eduà, vieni pure tu…Alfrè, però stavolta pago io – disse l’avvocato rivolgendosi al collega Caliulo – A proposito, voglio presentarti il giovane collega Scalera, Eduardo Scalera. Vedrai che tra un po’ ne sentiremo parlare: è uno fino fino – disse, segnandosi la guancia con il pollice – pensa che prima, in udienza, voleva farti decadere dalla prova perché non avevi citato i testimoni – Caliulo sorrise – Scalera, mm, ma sei per caso parente del dott. Scalera, il cardiologo che sta a Fuorigrotta? – mi chiese. Avrei voluto dirgli di sì, ma poi – No, non lo conosco – Scusatemi – intervenne Colajanni – Eduà, c’è il collega Morrone, vieni che gli chiediamo quella cosa – Mariooo! – gridò l’avvocato, alzando il braccio – non te ne andare, devo parlarti. – Raggiuntolo, prima lo abbracciò, poi fece le presentazioni – Mario, lui è il giovane collega Scalera. E’ venuto ieri al mio studio per iniziare il praticantato, ma io non ho molto spazio e allora… se tu potessi……sai è molto preparato, non per dire, ma è un ragazzo in gamba – Non lo metto in dubbio – disse Morrone – del resto, per stare da te non può che essere così. Ma vedi, Mimì, sto traslocando e al nuovo studio dovrebbe venire la figlia del notaio Cicalese, glielo avevo promesso. E poi Gianni e Stefania stanno ancora con me; quei due dicono sempre che se ne vanno e non se ne vanno mai. Mi dispiace tanto. Ma, se non ricordo male, Guido è alla ricerca di un collaboratore – Chi, Guido Caracciolo? – domandò Colajanni – Sì, lui – rispose Morrone – Non sia mai! Se lo mandiamo da quell’azzeccagarbugli non imparerà neppure a scrivere una lettera. No, non se ne parla proprio. Senti a me, Eduà, mò vedo io come risolvere la questione. Vorrà dire che ci stringiamo, e un posto per te lo facciamo uscire lo stesso – In quel momento avrei voluto afferrargli la testa e dargli un bacio in fronte, ma mi uscì solo un timido e commosso – Grazie di cuore, avvocato – Meglio così – concluse Morrone – a proposito – domandò – il caffè lo avete già preso? – Sì, grazie – dissi, pensando di rispondere anche per conto di Colajanni. Ma lui, nel frattempo, aveva già messo il braccio sulla spalla del collega e con l’altra mano mi fece segno di seguirlo. I caffè erano già arrivati a tre e la mattinata non volgeva ancora al termine. Alla mezza, dopo aver simulato di bere una quinta tazzina, tornai a casa elettrizzato – Eduà, ma che c’hai la febbre? – chiese mia madre vedendomi stravolto – No mammà, è solo felicità – le dissi, digrignando i denti.
Angelo Cennamo