ROSSO AMERICANO – Rick Moody

Rosso americano - Rick Moody

Rick Moody, newyorchese, è considerato uno dei più importanti scrittori americani della sua generazione, quella dei Franzen, Chabon, Saunders, Eugenides, David Foster Wallace al quale Moody è vicino per lo stile massimalistico-labirintico e per una prosa virtuosa e iperbolica. Rosso americano – romanzo del 1997, pubblicato in Italia da La nave di Teseo – è il libro della consacrazione dopo i primi successi Cercasi batterista, chiamare Alice e Tempesta di ghiaccio. E’ una storia drammatica e comica al tempo stesso, proprio come la scrittura di Moody, che con la stessa frase è capace di farci ridere e mozzarci il fiato. Tutto accade in quarantotto ore, un tempo breve che nel romanzo però si dilata all’inverosimile. Hex Raitliffe è un trentottenne balbuziente alcolizzato con “massicci occhiali da saldatore legalmente-non-vedente-incapace-di-vedere-a-un-palmo-dal-naso”, tornato a casa, dalla madre gravemente malata, per accudirla dopo che il suo patrigno l’ha abbandonata di punto in bianco. La tenerezza con la quale Exe aiuta la donna – paralitica, quasi del tutto afona – a fare il bagno, nel dettagliatissimo incipit del romanzo – sette pagine senza un punto – mi ha ricordato la premura di Mattia, il giovane protagonista de L’invenzione della madre, opera prima di Marco Peano. Come nel libro di Peano, le parole di Moody danno corpo al corpo, il corpo del genitore ingabbiato, martoriato dalla tetraplegia, che arriva ad implorare il suicidio assistito come ultimo desiderio. Ma il rapporto tra Exe e sua madre, che evolverà in un finale thriller, è solo uno dei temi narrativi del romanzo. Moody alleggerisce il dramma della malattia e della fuga del patrigno, nello stesso giorno coinvolto anche in un incidente a una centrale nucleare, con una trama parallela, grottesca, che vede protagonista una ex compagna delle medie di Hex, Jane Ingersoll. La descrizione anatomico-cabarettistica del breve corteggiamento, tra eros e tanathos, soprattutto del primo bacio e del conseguente accoppiamento sessuale, goffo, avvilente, esilarante, con Jane che “bofonchia vocali inedite”, è un pezzo di altissima letteratura. Non so quanti libri venda Rick Moody nel suo paese e all’estero, quello che so è che Moody scrive meglio di tanti romanzieri americani in Italia più blasonati e osannati di lui “La bocca di lei sa di porti del New England, di sigarette, alcool, esperienza”. Nel 2001, il New Yorker lo inserì tra i venti giovani autori americani che avrebbero segnato la letteratura del nuovo secolo. Leggete i grandi libri. Leggete i libri di Rick Moody.

Angelo Cennamo

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LAMENTO DI PORTNOY – Philip Roth

Lamento di Portnoy - Philip Roth

1969. L’America non si è ancora ripresa dagli assassinii dei fratelli Kennedy e Martin Luther King – James Ellroy, Don DeLillo e Stephen King ne hanno tirato su un bel po’ di libri. Philip Roth pubblica il romanzo della consacrazione dopo le buone prove di Goodbye, Columbus, Lasciar andare e Quando lei era buona. L’invenzione di Nathan Zuckerman arriverà qualche anno più tardi, ma il gioco della simulazione e dissimulazione della verità è già iniziato. Alex Portnoy è un giovanotto di trentatré anni, piccolo borghese, con un impiego dignitoso al Comune di New York. È lì, sdraiato sul lettino del suo psicanalista a raccontare i tic e le nevrosi che lo accompagnano dall’infanzia. Tutto il libro è un lungo lamento, vorticoso, incessante, comico, esilarante. Il romanzo appartiene alla prima parte della produzione di Roth, quella cosiddetta “del figlio”, nella quale lo scrittore di Newark dà voce alla ribellione. Nel rituale gioco di specchi tra realtà e finzione, è il Carnovsky di Nathan Zuckerman, il romanzo eretico, blasfemo, che farà morire di crepacuore il padre del suo alter ego, lo scrittore fantasma attraverso il quale Roth racconta la propria vita mascherandola da fiction. Portnoy è Philip Roth. E il padre assicuratore di Portnoy è il padre di Roth. Ho riletto il libro nel suo cinquantennale, per la prima volta l’ho comprato non avendone mai posseduto una copia. Rileggere Roth è un’operazione quasi salvifica, come fare il tagliando all’automobile o le analisi del sangue. Certi libri ci danno il senso della distanza e della vicinanza alla storia, a un luogo, in questo caso ad un modo di sentire e di vedere il mondo. L’uomo sul lettino racconta i conflitti con il padre, ebreo come lui, ma Alex non vuole esserlo. Non vuole credere nel Dio di Abramo né in nessun altro dio. L’odio-amore-incestuoso per la madre, ossessionata dall’ordine e dall’igiene. Padre e madre sono “I più eminenti produttori e confezionatori di colpevolezza dei nostri tempi”. La misoginia che lo fa scappare dalle donne e dal matrimonio – Scimmia è il nomignolo affibbiato alla fidanzata ninfomane, gretta, ignorante, che fa sesso orale mentre lui declama poesie di Yeats. L’onanismo compulsivo della prima adolescenza – il dialogo tra lui, chiuso in bagno, e i genitori preoccupati per la sua finta diarrea è una delle scene più divertenti e ben scritte del romanzo. Non aspettatevi le vette narrative de La macchia umana o di Pastorale americana o de Il teatro di Sabbath: i capolavori arriveranno qualche anno dopo, ma questo Roth va letto, assaporato, e contestualizzato in quello scorcio di Novecento che della dissacrazione e della ribellione ne è stato la culla. Il flusso lamentoso di Portnoy ci riporta al magma inarrestabile di un altro sconclusionato della letteratura americana, al giovane Holden di Salinger, il ragazzaccio mezzo matto che deve annunciare ai suoi genitori di essere stato cacciato dal liceo. Il libro di Roth ne è in buona sostanza il sequel. La storia di Holden Caulfield si conclude in una clinica psichiatrica, quella di Alex Portnoy ha come unica ambientazione lo studio del suo psicanalista. Disperati, erotici, stomp.

Angelo Cennamo

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I TEMPI NUOVI – Alessandro Robecchi

 

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Prendete un autore televisivo di programmi trash – pentito – ancora giovane, belloccio, con un bel po’ di grana, single. Affiancatelo ad un investigatore privato enigmatico e francazzista, che sulla targa della sua agenzia scrive “Sistemi Integrati” tanto per, e che per “integrare” meglio i “Sistemi” arruola una ex poliziotta non tanto ex, con un nome che sembra uscito da una commedia di Eduardo: Agatina. Aggiungete ora due sovrintendenti della Polizia di Stato, scoglionati ma ligi al dovere, e catapultate questa fauna di simpatici antieroi in una Milano caotica, rumorosa, dove per trovare parcheggio devi teletrasportarti ai moti del ’48. I tempi nuovi di Alessandro Robecchi è l’ultimo capitolo di una serialità che è entrata ormai a pieno titolo nel salotto buono della letteratura noir. Robecchi è italiano ma scrive come un texano che ascolta Giorgio Gaber. Carlo Monterossi  e Oscar Falcone avranno anche poco da spartire con i personaggi di Joe Lansdale, eppure le battute fulminanti dei loro dialoghi, serrati, dal ritmo cinematografico, sembrano uscite da romanzi come Rumble tumble o Mucho mojo. Nel nuovo episodio, gli Hap e Leonard dei Navigli devono rintracciare il marito di una “bella-donna-milanese-nel-pieno-dei-suoi-poteri”, che però non sembra affatto dispiaciuta per la misteriosa scomparsa del coniuge. La vicenda di Gloria Grechi, è questo il nome della donna, finirà per intrecciarsi ad una trama parallela – il doppio canale è uno schema tipico delle storie di Robecchi – che vede protagonista un giovane studente, tutto casa e aula universitaria, assassinato nella propria auto, senza una ragione apparente. Trattandosi di noir, il crimine ovviamente non è che un pretesto, un espediente narrativo del quale Robecchi si serve per raccontare molto di più. Intanto, la tivù commerciale di Flora De Pisis, la fabbrica della merda che adesso, per ordine del super direttore Calleri, deve rassicurare, non più terrorizzare i telespettatori. I tempi nuovi richiedono altri stili, nuovi linguaggi, ottimismo prima di tutto. Bella rivoluzione! E la povertà? Quella non puoi di certo mascherarla o meglio cancellarla con un sorriso luminoso della esuberante De Pisis. Nei tempi nuovi, distinguere un farabutto da una persona per bene è un esercizio complicato. Il crinale tra i buoni e i cattivi è diventato una linea scura sottilissima, tanto per ricitare Lansdale, e la storia inventata da Robecchi, con le sue declinazioni umane, politiche e sociologiche – il noir italiano è il nuovo romanzo sociale, ricordiamolo – ce lo racconta meglio di tanti editoriali e talk show televisivi.

Angelo Cennamo

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JOYLAND – Stephen King

 

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Quando leggi che nell’estate del 1973 il giovane Devin Jones, dal New England, si trasferisce nella Carolina del Nord per lavorare in un parco giochi, la prima cosa che ti viene da pensare è: e io, in quei mesi cosa facevo? Joyland come l’Edenlandia di Napoli? L’ho immaginata così. Riecco allora Tolstoj: racconta il tuo villaggio e racconterai il mondo. Un trucco, un meccanismo, che Stephen King conosce alla perfezione e che ripete puntualmente in ogni libro quando spalanca le porte del suo Maine a milioni di lettori sparsi in ogni angolo del pianeta. Nel mondo di Devin c’è una fidanzata che lo ha lasciato, Wendy, e un sogno: diventare uno scrittore famoso. Joyland è un luna park frequentato perlopiù da zoticoni, una fabbrica del divertimento, è soprattutto un luogo dove un ragazzo squattrinato come Devin può guadagnarsi qualche dollaro, rimuovere i brutti ricordi, fare nuove amicizie. Attenzione però, che ci crediate o meno, tra ottovolanti e ruote panoramiche, in quel tunnel dell’orrore, là in fondo, potete imbattervi nello spettro di una ragazza sgozzata molti anni fa. Si chiamava Linda Gray, come la Sue Ellen di Dallas. Ma non equivocate: Joyland non è affatto un romanzo horror. Con troppa superficialità King viene etichettato maestro del genere horror. King è maestro di sentimenti, non dell’horror. Joyland è un magnifico romanzo di formazione che ricalca – sia pure con originalità – uno schema collaudatissimo nella letteratura anglo-americana, un tracciato narrativo seguito da mille altri autori, da Dickens a Salinger, da Bellow a Lansdale, da Cameron a Donna Tartt. Devin come Holden Caulfield? Perché no. Holden sfugge alla famiglia per ritardare la brutta notizia dell’espulsione dal liceo. Devin fugge da Wendy, la ragazza che gli ha spezzato il cuore. Ma a Joyland avrà tempo e modo di rifarsi. A Joyland si diventa adulti.

Angelo Cennamo

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IL TRIBUNALE DELLE ANIME – Donato Carrisi

Il tribunale delle anime - Donato Carrisi

La Penitentiaria Apostolica – più comunemente Tribunale delle anime – fu istituita nel XII secolo per giudicare i peccati più gravi, quelli che richiedono approfondimenti, assoluzioni ragionate, studiate con maggiore cura. Il più grande archivio del male è confinato tra le mura del Vaticano. Da qui prende le mosse questo romanzo del 2011, il secondo di Donato Carrisi dopo il best-seller internazionale Il suggeritore, per avventurarsi su un terreno scivoloso, impervio per uno scrittore, ma sempre affascinante, affastellato da mille suggestioni e falsi miti: l’eterna lotta tra il bene e il male. Carrisi ambienta la sua storia in una Roma tenebrosa, gotica, ozpetekiana. Lo scenario ideale, forse indispensabile, per investigare su un ordine religioso clandestino che si muove nell’illegalità. Una ragazza scompare nel nulla. Un fotoreporter viene assassinato. Ad indagare sono una poliziotta milanese, Sandra Vega, e Marcus, un prete penitenziere dal passato indecifrabile a causa di un persistente vuoto di memoria. Le personalità asimmetriche dei due protagonisti sono il primo colpo in canna ben calibrato da Carrisi: se Marcus deve fare i conti con le proprie amnesie, Sandra è invece obbligata a ricordare la tragica fine del marito. I loro destini si incroceranno davanti al Martirio di san Matteo di Caravaggio – tutto il romanzo è intriso di citazioni bibliche, dipinti e luoghi sacri – in una delle scene più adrenaliniche e meglio descritte dall’autore. Le indagini sulla ragazza, e non solo quella, portano a Jeremiah Smith, un personaggio inquietante e dall’identità sconosciuta fino alle ultime pagine del racconto. Chi è Jeremiah? Come fa ad avvicinare le sue vittime? Il Tribunale delle anime è un romanzo sul senso del perdono, sul contagio inaspettato del male, sul confine invisibile tra la salvezza e la perdizione: il vero pericolo non è la tenebra ma quel luogo intermedio dove la luce diventa ingannevole, perché c’è sempre  “un luogo in cui il mondo della luce incontra quello delle tenebre”. È soprattutto un romanzo sulla ricerca della fede. La fede è un dono nascosto, va cercato, dice Carrisi, che a pagina 441 si supera nella rappresentazione della folgorante scoperta di Sandra, ormai prossima alla quadratura del cerchio.

Angelo Cennamo

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RUMORE BIANCO – Don DeLillo

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Tutti vogliono possedere la fine del mondo” scrive Don DeLillo nell’incipit di Zero K. È la frase che dà inizio al racconto ma che nel contempo chiude il cerchio di una narrazione più vasta, cominciata molti anni prima, nel 1985, con un libro gemello di questo, intitolato Rumore bianco. Jack Gladney è un professore di studi hitleriani in un campus universitario dove gli scarti della cultura pop americana hanno oscurato qualunque altra forma di apprendimento. La quarta moglie di Jack, Babette, soffre di vuoti di memoria e, di nascosto, si sottopone ad una terapia sperimentale per superare le proprie ossessioni. Le stesse di suo marito “Il rimpianto più profondo è la morte. L’unica cosa da affrontare è la morte. Non penso ad altro. Il punto è uno solo : non voglio morire” dice Jack al suo collega Murray nelle ultime pagine. È la frase che racchiude il senso del libro agganciandolo all’altro, il cui protagonista, Jeffrey Lockart, affida il sogno della resurrezione alla tecnica avveniristica della criogenesi. Con Rumore bianco DeLillo ci conduce nella quotidianità di una famiglia progressista con figli di matrimoni precedenti, larga come la trama del romanzo che non scorre mai in divenire ma procede in orizzontale attraverso il racconto delle sensazioni, delle manie dei protagonisti. “E se la morte non fosse altro che un rumore?”. Il vero problema, dice Heinrich, il figlio sofista e catastrofista della coppia, sono le radiazioni che ci circondano ogni giorno: radio, forno, tv, forno a microonde, fili elettrici. I campi elettrici e magnetici sono la nostra rovina. Leggendo il libro, la prima immagine che balza alla mente è quella di un luogo chiuso, senza finestre, illuminato giorno e notte dai neon. Un luogo sommerso dalla plastica e dalla carta, da involucri, buste, etichette, dal ronzio, sottile, quasi impercettibile dell’aria condizionata e dei banconi refrigeranti. Il supermercato è il luogo dove questa non-storia prende corpo, si inspessisce di richiami filosofici e sociologici, fino a tradursi in una nevrosi collettiva che porterà i protagonisti ad un vero delirio, prima a seguito del deragliamento di un carro cisterna che genererà una nube tossica, poi con la ricerca ossessiva di un farmaco che promette l’annientamento della paura. Non saprei come definire quest’opera così bizzarra, originale, la cosa forse più simile che ci sia alla narrativa di David Foster Wallace. Penso che certi libri servano spingere i lettori in luoghi inesplorati. Forse tra cinquant’anni di Rumore bianco non se ne parlerà più così tanto, o forse se ne parlerà più di oggi.

Angelo Cennamo

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ON WRITING – Stephen King

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Non mi chiedono mai del linguaggio, dice Stephen King parlando di sé in questo delizioso pamphlet autobiografico che somiglia a un vero romanzo. Dove comincia una vita?, si chiede Sandra Petrignani nell’incipit del suo libro su Natalia Ginzburg. Quella di King comincia in prima elementare, quando per una fastidiosa malattia all’orecchio il piccolo Stevie è costretto a saltare l’anno scolastico. Mesi e mesi di detenzione forzata durante i quali  il bambino prodigio comincia a buttare giù i primi racconti – fin da subito storie fantastiche – pagati con pizzicotti sulle guance e le mance dei parenti. Ma quella frase iniziale – non mi chiedono mai del linguaggio – la dice lunga sul personaggio, sulla frustrazione forse, di chi, nonostante abbia venduto decine di milioni di libri in ogni angolo della terra, continua a non essere preso troppo sul serio dalla critica e da una fetta di lettori snob. Hai voglia di dire che il linguaggio non deve presentarsi sempre in giacca e cravatta e che l’obiettivo della narrativa non è la correttezza grammaticale, ma mettere a proprio agio il pubblico e poi raccontargli una storia: lo steccato che divide la letteratura mainstream da quella di genere resta ancora alto, e non solo in Italia. Né serve citare gli illustri precedenti di Dickens, Twain o Simenon, tre dei numerosi abbagli dei palati fini, per invertire la sciocca credenza del disvalore di certe narrazioni.

Ma On Writing non è affatto un libro polemico, anzi. I numerosi aneddoti che l’autore racconta nelle duecentosettantanove pagine che lo compongono sono un utile compendio non solo per chi ha l’ambizione di avviarsi al difficile mestiere di scrittore, ma anche per un semplice lettore.

Scrivi con la porta chiusa, correggi con la porta aperta”: notate l’effetto di questa frase, la perfezione anche stilistica. Una volta scritta la prima stesura, il racconto si apre all’esterno, al vaglio di chi legge. Non sarebbe male, aggiunge King, immaginare un lettore ideale, un amico, un parente che stia lì a giudicare quello che scriviamo. Mai abusare degli avverbi o della forma passiva. Mi raccomando, eliminate le parole superflue. La scrivania è meglio tenerla nell’angolo della stanza, non al centro: la vita non dev’essere di sostegno all’arte, ma viceversa. Piccoli suggerimenti, una sorta di cassetta degli attrezzi, nulla di speciale, anche perché il solo modo per imparare a scrivere è quello di leggere e scrivere molto, non esistono scorciatoie. Quanto all’aspetto strettamente biografico, quella di King è davvero una vita speciale, ricca di eventi, non tutti esaltanti: l’alcol, la droga, un gravissimo incidente d’auto. Figlio di ragazza madre costretta a fare mille mestieri per crescere e mantenere agli studi i suoi due figli, King, come dicevo, fin da ragazzo ha manifestato una spiccata propensione alla creazione di storie. Prima il giornalino della scuola, poi i romanzi scritti nel retrobottega di una lavanderia, è stato questo il suo primo lavoro nonostante la laurea e un’abilitazione all’insegnamento. Interessante il passaggio nel quale King racconta il momento della svolta. Lui e sua moglie sono in macchina senza un becco di un quattrino. Lei ha il figlio in braccio che vomita. E’ malato. Ha bisogno di un farmaco costoso. Rientrando a casa, King apre la cassetta postale e ci trova dentro la lettera del suo editore che gli annuncia di aver acquistato Carrie, il romanzo d’esordio, il libro che gli frutterà oltre quattrocentomila dollari. Il resto è storia nota.

Angelo Cennamo

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IL SINDACATO DEI POLIZIOTTI YIDDISH – Michael Chabon

 

Il sindacato dei poliziotti yiddish

 

La chiamano letteratura ucronica, perché l’autore riscrive la storia immaginando scenari ed epiloghi diversi rispetto ad avvenimenti già accaduti. Il complotto contro l’America di Philip Roth ne è un fulgido esempio. Per certi versi, anche la trilogia americana di James Ellroy. In questo romanzo pubblicato nel 2007, e preceduto da capolavori come Wonder boys (1995) e Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay (2001), Michael Chabon – scrittore ebreo-americano ed erede di una gloriosa tradizione letteraria della quale hanno fatto parte autori come Bellow, Malamud e lo stesso Roth  – immagina che gli ebrei dopo la seconda guerra mondiale non siano approdati in Palestina, ma abbiano trovato rifugio in Alaska, luogo meno pericoloso di Israele ma di sicuro più noioso. Più che una Terra Promessa, la terra delle promesse, in primo luogo quella della imminente Restituzione della terra ai nativi. Ci troviamo nel distretto federale di Sitka, città inospitale in ogni senso – nelle quattrocento pagine del libro non si intravede un raggio di sole, un filo d’erba, un odore che non sia quello del tabacco o di un’ascella sudata. Qui, in una camera d’albergo, viene ritrovato il cadavere di un campione di scacchi eroinomane. Si faceva chiamare Emanuel Lasker, come un celebre scacchista dell’Ottocento, ma il suo vero nome era Mendel Shpilman. Figlio di un rabbino ultraortodosso, Mendel, fin da bambino, per la sua spiccata intelligenza e per una serie di prodigi compiuti, era considerato da tutti il Messia. In tanti accorrono al suo funerale, e piangono, ma non lui, la speranza persa, “la perdita del colpo di fortuna che non è mai arrivato”. A indagare sull’omicidio è un curioso detective, un uomo alcolizzato, divorziato da una donna che è anche il suo capo in polizia, con una sorella morta in un misterioso incidente aereo ed un padre – anche lui scacchista – morto suicida. Meyer Lansdman è un uomo sull’orlo di una crisi di nervi. Un ebreo laico, del tutto indifferente alle questioni religiose. La sua vicenda personale, goffa e travagliata dall’inizio alla fine, si intreccia con la trama pubblica del libro, ovvero con la questione storico-religiosa legata all’Olocausto, per quanto riveduta e corretta da Chabon. “Sono tempi strani per essere un ebreo” e di stranezze questo romanzo ne è davvero pieno. La narrazione di Chabon è innanzitutto una storia di perdite: della terra per gli ebrei, dell’amore e della lucidità mentale per Meyer, della vita di Mendel, di un improbabile Messia per la sbandata comunità di Sitka. Un romanzo che sfugge a qualunque classificazione: un noir postmoderno? Un libro di fantascienza? Un romanzo storico? Tutte queste cose messe insieme, forse. Di sicuro un’opera folle, geniale, meravigliosamente ostica, attraverso la quale l’autore è riuscito ancora una volta ad alzare l’asticella delle sue performance e a proporsi come uno degli ultimi sperimentalisti della letteratura americana.

Angelo Cennamo

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IL FANTASMA ESCE DI SCENA – Philip Roth

 

Il fantasma esce di scena - Roth

 

I romanzi di Philip Roth raccontano molto della vita di Roth. La sua adolescenza (Lamento di Portnoy), il matrimonio (La mia vita di uomo), il rapporto con il padre (Patrimonio), il successo professionale e i conflitti con la comunità ebraica (Zuckerman scatenato), e via dicendo. Il fantasma esce di scena risale al 2007 ed è il romanzo che chiude il ciclo di Zuckerman – l’alter-ego dell’autore, lo scrittore attraverso il quale Roth si diverte a simulare e dissimulare la verità, scambiando ruoli e prospettive – iniziato quasi trent’anni prima, nel 1978, con Lo scrittore fantasma. E’ un romanzo breve, non è tra i capolavori di Roth – a tratti, la storia può risultare abbastanza cupa, noiosa – ciononostante nel libro non mancano spunti geniali e momenti di finissimo sarcasmo che ne rendono la lettura interessante, complessivamente gradevole. Zuckerman, ormai settantunenne e malato di cancro alla prostata, torna nella sua New York, la città che aveva lasciato undici anni prima per trasferirsi in campagna e vivere isolato da tutto e tutti, senza cellulare, pc, giornali, fregandosene del mondo esterno. Il vecchio Nathan, rassegnato ad una quotidianità di grigi automatismi, ne avrebbe fatto volentieri a meno di quel controllo medico in ospedale, se solo il suo vicino di casa Larry – morto suicida dopo aver scoperto di avere la sua stessa malattia – non gli avesse lasciato, prima del gesto risolutorio, un accorato biglietto di commiato col quale lo invitava a non lasciarsi andare, a curarsi, e a non vivere come un eremita. Esci dal guscio, Nathan, è questo il senso del messaggio di Larry. E Nathan obbedisce. Il ritorno a New York è il ritorno alla vita, ai ricordi ma anche al sogno di un improbabile ringiovanimento. In città,  Zuckerma fa una serie di incontri che in breve tempo spazzano via la sua solitudine e la rassegnazione. Ritrova Amy Bellette, una vecchia musa dello scrittore E.I. Lonoff, suo maestro di scrittura, e poi un aspirante biografo di Lonoff, un ragazzo ambizioso, disposto a tutto pur di raccontare, rivelare un segreto sulla vita del grande romanziere. Ma le pagine più interessanti sono quelle che raccontano di Billy e di sua moglie Jamie, i due giovani scrittori liberal ai quali Zuckerman propone uno scambio di case. I due sono preoccupati per la seconda affermazione di Bush alle presidenziali e vorrebbero trasferirsi nella residenza di campagna di Zuckerman per sfuggire ad un possibile nuovo 11 Settembre. L’odio feroce che questa coppia prova per la destra repubblicana sorprende l’indifferente Zuckerman. Non è certamente un repubblicano, Nathan, ma arrivare a temere Bush più di Bin Laden, al punto di augurarsi la sua morte, è un sentimento che rasenta la follia. Zuckerman è abbagliato dal fascino di Jamie, è immediatamente attratto fisicamente da lei, e neppure la sua malattia riesce a frenare l’improvviso desiderio. Un’ossessione che lo porta a fantasticare, immaginare altre scene in un continuo rincorrersi tra verità e finzione. Tutto allora diventa surreale: lui, lei, l’eros che serpeggia nei dialoghi ricostruiti in una dimensione quasi onirica. Nelle fantasie di Nathan ho ritrovato la relazione, reale, tra Ezra Blazer – il vecchio scrittore ebreo che incarna proprio Philip Roth nel libro di esordio di Lisa Halliday Asimmetria – e la giovane correttrice di bozze Alice. “Corri verso la follia”, dice Zuckerman a Jamie nelle ultime battute del libro. Nel finale di Asimmetria, Blazer invita Alice a scegliere lui, a scegliere l’avventura. Due romanzi che si toccano e raccontano lo stesso argomento: la paura della morte, la speranza di resisterle attraverso il sesso e l’amore.

Angelo Cennamo

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