L’UOMO CHE AMAVA I LIBRI – George Pelecanos

 

L'uomo che amava i libri - George Pelecanos

 

Quanto George Pelecanos sia legato a Charles Willford ed Elmore Leonard, maestri del thriller che lo hanno preceduto di una generazione, lo si capisce fin dalle prime battute di questo romanzo: L’uomo che amava i libri è dedicato a loro. Da qualche anno, in Italia, di Pelecanos si erano perse le tracce. Sem Libri oggi lo ripropone con la sua ultima opera, probabilmente una delle migliori. La trama del romanzo è semplice e pochi sono i personaggi che ne fanno parte. Siamo a Washington. Michael Hudson riesce ad evitare una condanna per rapina grazie alla manipolazione del testimone chiave del suo processo. A salvare Michael è il detective Phil Orzanian. Phil non è uno stinco di santo. Nella tradizione di altre figure del poliziesco americano e non solo americano (il Rocco Schiavone di Manzini, ad esempio), Phil arrotonda i suoi guadagni con dei lavoretti sporchi. Il favore reso a Michael non è gratuito. E’ qui che la storia comincia a prendere quota, intersecandosi con una seconda traccia che porta al terzo protagonista del libro: Anna, la bibliotecaria del carcere che trasmette a Michael la passione per la lettura. Anna è una donna sposata ma ha un debole per il (quasi) redento Michael. Fuori dal carcere, i due avranno modo di rivedersi. Lui continuerà a darle del lei. Parlano, si guardano, bevono qualche birra insieme. La passione per i libri li unisce oltre la soglia di quella quotidianità che non ammetterebbe deroghe. Una storia d’amore in un thriller classico, vecchia scuola, dai meccanismi perfetti, dal ritmo sostenuto e con frasi brevi, mai una parola di troppo. Leggere Pelecanos è un vero piacere.

Angelo Cennamo

                                  

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Wallace, il realismo disperato di un genio della modernità

DAVID FOSTER WALLACE Ritratto bianco e nero

Raccontare l’apatia con garbo ed umorismo. La sconfitta della noia è come l’estasi istantanea in ogni atomo. Se sei immune alla noia, non c’è nulla che tu non possa fare. Giudicare l’opera di David Foster Wallace separandola dalla pulsione di morte che abitava la sua mente e che alla fine lo ha condotto al suicidio, è impossibile. Il realismo isterico della sua scrittura,  vertiginosa, torrenziale, lo sguardo malincomico – malincomico con la M – sulle vicende umane affrescate nelle pagine dei pochi romanzi  pubblicati sono indissolubilmente legati al noto malessere e a quel gesto risolutorio, forse inaspettato. La sera del 12 settembre del 2008, nella sua casa di Claremont, in California, pare che Wallace avesse pianificato tutto: scritto due righe di commiato alla moglie Karen, salutato i cani Jeeves e Drones, e ordinato negli  scatoloni giù in garage i manoscritti del romanzo al quale stava lavorando già da parecchi anni. Un librone di cinquemila pagine che si sarebbero ridotte a poco più di mille, aveva confidato a Jonathan Franzen. Per completare questo librone Wallace aveva rinunciato a convegni, conferenze stampa e uscite con gli amici. Dopo il successo di Infinite Jest, le aspettative dei lettori erano altissime. Un impegno troppo gravoso. E a chi come lo stesso Franzen si preoccupava negli ultimi tempi del suo stato di salute e gli chiedeva come stai, lui alla sua maniera rispondeva:  mi sento un po’ peculiare. I pezzi del  romanzo che Wallace stava scrivendo vennero successivamente assemblati dal suo editor, Michael Pietsch, in un libro di circa 800 pagine, pubblicato col titolo de Il Re Pallido. E’ l’ultimo atto, il testamento inconsapevole di un genio compreso, capace di ricodificare la grammatica della narrativa nordamericana e non solo quella, completando l’opera di altri avanguardisti: John Barth, Don DeLillo, Thomas Pynchon. Incontrai Wallace nel giugno del 2006, a Capri, in occasione di un celebre appuntamento letterario organizzato sull’isola da Antonio Monda. Era la prima edizione. L’immancabile bandana, t-shirt rossa con una scritta, uno stravagante bermuda a vita alta, l’aria svampita di chi è stato trascinato controvoglia in un luogo troppo esotico per le sue abitudini: l’aspetto di Wallace era quello di un nerd che aveva svoltato. Lui e Jonathan Franzen, amici e rivali, confusi tra la folla che neppure li riconosceva, si aggiravano sulla piazzetta come turisti anonimi. A distanza di anni, ritrovo quelle immagini nella mia memoria e sul web, confuse tra mille altre evocate dai suoi scritti: appunti di viaggio, racconti, romanzi, interviste. Leggere Wallace è come sentirsi spalancare gli occhi, e quando sfogliamo i suoi libri, per un certo numero di pagine ci piace immaginare, come ha scritto qualcuno, di essere lui, di essere David Foster Wallace.

Angelo Cennamo        

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LE FAMOSE PATATE – Joe Cottonwood

 

Le famose patate - Joe Cottonwood

 

Will Middlebrook è un reduce del Vietnam, con una moglie mezza matta e un figlio morto. Una sera, Will si ritrova coinvolto in una rissa. Un uomo viene accoltellato e la colpa ricade su di lui. Inizia una fuga disperata, senza sosta, attraverso Stati e città, con una nuova identità e con pochi spiccioli in tasca. Nel futuro di Will c’è una sola certezza: Erica, la giovane consorte oggi ricoverata in un ospedale psichiatrico. L’infinito rincorrersi tra lui e lei è la parte migliore di questo romanzo cult di Joe Cottonwood, scrittore qui da noi sconosciuto e portato alla ribalta da Mattioli 1885 books. Leggendo Le famose patate non si può non pensare al road book di Kerouac, l’archetipo di questo genere di narrazione, al quale Cottonwood sembra voler rendere omaggio. Il viaggio di Will, tra autostop e treni in corsa, è un susseguirsi di incontri con un’umanità disperata e reietta come lui, che entra ed esce dalla storia alternandosi a vicende del passato e a numerosi imprevisti. Claire, la prostituta che seduce Will in un bar e lo trascina nella squallida stanza d’albergo dove vive, è il personaggio più vero di questo romanzo veloce, intenso, a tratti commovente. Cottonwood racconta un’America di scarti, sopravvissuti, uomini e donne che non hanno più niente da perdere; vite in gioco, vite distrutte, vite che la sfangano per il rotto della cuffia. Will è uno di loro. La sua corsa senza fine diventa così la metafora di una rincorsa più grande, l’anelito a una felicità perduta o ancora da afferrare: Erica, la sola possibile.

Angelo Cennamo

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IL FIORE DELLA NOTTE – Herbert Lieberman

 

Il fiore della notte - Herbert Lieberman

 

Ad oggi, in Italia, di Herbert Lieberman sono stati tradotti solo due libri, entrambi editi da minimum fax: Città di morti e Il fiore della notte. Sono romanzi datati, il primo è uscito negli Stati Uniti nel 1974, se la mente non mi inganna; l’altro è stato pubblicato dieci anni dopo. Non chiedetemi per quale strana ragione l’aereo con i thriller di Lieberman sia atterrato nel nostro paese con un simile ritardo: non la conosco. Ma di casi come quello del maestro di New Rochelle se ne possono citare a decine, ahimè. Il fiore della notte, come il libro che lo ha preceduto, è una storia newyorkese, cupa, ma dal respiro ampio, densa di sottotrame, pieghe, nutrite divagazioni che però sono perfettamente funzionali alla vicenda centrale. I protagonisti del romanzo sono due personaggi dei quali è impossibile non innamorarsi. Vediamoli. Il detective Francis Mooney è un uomo corpulento, vicino alla sessantina, un asociale, single, non può fare a meno di ingozzarsi di cibo spazzatura, la sua più grande passione sono i cavalli. La carriera di Mooney nella polizia di New York è stata condizionata da una serie di stop and go: promozioni sì, ma anche dolorose retrocessioni e tante umiliazioni. L’altro è Charles Watford. Un raccontaballe mezzo matto, inseguito dai fantasmi dell’infanzia, una specie di Caulfield Holden da adulto che scrocca ricoveri in ospedale per assecondare una farmacodipendenza compulsiva, la sua rovina. I due protagonisti seguono percorsi paralleli senza mai incontrarsi nelle prime duecento pagine. Lieberman colloca la sua storia sui tetti di una New York notturna e primaverile. E’ lì, da quei tetti, che un misterioso serial killer uccide senza mira e senza una ragione apparente, lasciando cadere nel vuoto dei blocchi di calcestruzzo. Per la polizia si tratta di morti accidentali, ma Mooney è deciso ad andare fino in fondo e contro tutti per dimostrare che dietro quegli episodi si nasconde la mano di uno spietato assassino. L’incontro tra il detective e l’incorreggibile Watford è il preludio di una svolta; pur essendo molto diversi, i due sono accomunati da un profondo senso di infelicità. La cialtroneria di Watford intenerisce. Nel disincanto di Mooney ci riconosciamo tutti. Lieberman costruisce per gradi, non lascia nulla al caso e non si ferma al tratto poliziesco, va oltre: scandaglia i lati più remoti della personalità delle sue pedine, ne racconta il vissuto, le contraddizioni, la solitudine. Se Philip Roth avesse scritto dei thriller, li avrebbe scritti come Herbert Lieberman. Capolavoro.

Angelo Cennamo

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QUANTO BLU – Percival Everett

Quanto blu - Percival Everett

Una ventina di libri all’attivo, poco più di dieci tradotti in Italia, Percival Everett è il più grande tra gli scrittori americani sconosciuti nel nostro paese. Di lui ci colpisce, più di ogni altra dote, quella smisurata ecletticità che lo porta a scrivere romanzi sempre diversi, per genere, trama, stile, ambientazione. Leggendo le storie di Everett, ad un tratto scopriamo che è un autore di colore. Un dettaglio del tutto trascurabile se non evocasse il legame stretto, inscindibile, tra identità e scrittura che esiste invece in altri romanzieri afroamericani, da Colson Whitehead a Paul Beatty.

Quanto blu esce negli Usa nel 2017, tre anni dopo arriva in Italia con il nuovo editore La nave di Teseo. Ancora una volta Everett spiazza i lettori con una trama originalissima, lontana dalle narrazioni che l’anno preceduta. Kevin Pace è un pittore di Philadelphia che sta lavorando da tempo ad un quadro misterioso, una tela che nessuno può vedere, neppure i suoi familiari. Intorno al dipinto Everett fa ruotare una storia articolata in tre capitoli, alternati tra loro, e stratificata su più piani temporali: un viaggio fatto da Kevin trent’anni prima in El Salvador, alla ricerca del fratello del suo amico Richard (1979); una trasferta a Parigi nella quale il protagonista conosce una giovanissima acquarellista e vive con lei una relazione d’amore (Parigi); il presente americano all’interno della casa familiare, con la figlia sedicenne April che scopre di essere incinta (Casa). Tre capitoli per tre segreti. Tre macigni che Kevin nasconde dentro di sé e che approderanno su quella tela misteriosa come una definitiva liberazione. Quanto blu è un romanzo sull’indicibile, e sulla impossibilità di condividere qualunque verità. Percival Everett è capace di rendere fruibili a tutti temi e trame complesse, pluridimensionali, filosofiche. Un libro magnifico, soprattutto umano.

Angelo Cennamo

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