PRIMAVERA – Ali Smith

Che Ali Smith fosse una scrittrice dall’identità complessa e borderline lo avevamo capito già con “Voci fuori campo”, romanzo del 2004 che racconta le vicende turbolente di una famiglia inglese in villeggiatura in campagna, travolta, o per meglio dire salvata, dall’arrivo di una sconosciuta. Con “Primavera”, terzo capitolo di una quadrilogia legata alle stagioni iniziata con “Autunno” e proseguita con “Inverno”, lo schema narrativo è più o meno lo stesso: tutte le storie di Ali Smith ruotano intorno a degli incontri sorprendenti e salvifici. Il romanzo si apre con un uomo fermo su un binario di una stazione deserta. L’uomo è Richard Lease, un regista televisivo e cinematografico in piena crisi esistenziale. È lui il personaggio numero 1 del libro. Richard è addolorato per la morte di Patricia Heal, Paddy, cara amica e sceneggiatrice dei suoi film. Lei e Richard una volta erano stati anche a letto insieme ma si era trattato di un’esperienza irrilevante perché “loro erano qualcosa che andava oltre il sesso”. Prima che Paddy morisse, i due stavano lavorando all’adattamento cinematografico di un romanzo intitolato “Aprile”. Richard parla con una figlia immaginaria che nella sua testa ha sempre undici anni. Un folle stratagemma per supplire a una dolorosa mancanza: quando trent’anni prima il suo matrimonio era finito e la moglie e la figlia se n’erano andate all’estero uscendo per sempre dalla sua vita, proprio Paddy aveva suggerito a Richard di “portare” la figlia nei luoghi dove avrebbe dovuto sforzarsi di andare. 

Brittany – Brit – è il personaggio numero 2 del romanzo. Brit è un’agente di sicurezza in un centro di detenzione per immigrati in attesa di rimpatrio. Il suo è un lavoro crudele che abbrutisce, disumanizza. Le due trame sono indipendenti l’una dall’altra fino alla comparsa di Florence, la protagonista numero 3. Florence è una ragazzina di dodici anni, misteriosa, uscita dal nulla. Sorprende per vivacità e generosità. La sua infinita saggezza ce la fa collocare a metà strada tra Greta Thunberg e Miraijin, l’Uomo del Futuro de “Il colibrì” di Sandro Veronesi. Sarà lei, Florence, con la sua magica presenza, a riannodare le due storie e portare un vento nuovo nelle vite appassite di Richard e Brit.

Che romanzo è “Primavera”? È difficile classificare i libri di Ali Smith. Prima ancora dei contenuti, della Smith ci colpiscono la scrittura, lo stile postmoderno, la struttura delle storie che non c’è. Tutto è piacevolmente disarticolato, frammentato, frastagliato. “Primavera” è sotto mentite spoglie un romanzo politico? Direi di sì. Le vicende dei tre protagonisti hanno come sfondo la Gran Bretagna della Brexit, l’ascesa delle destre, Trump, l’ostinata difesa dei confini. Tra realismo e fiaba, e con la leggerezza e la classe di sempre, la Smith ha costruito una storia di diversità e di confronti. Un romanzo sicuramente fuori dalle righe, a tratti di difficile lettura, ma denso di suggestioni e di spunti di riflessione.

Angelo Cennamo

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I CIELI DI PHILADELPHIA – Liz Moore

“Sui binari di Gurney Street c’è un cadavere. Donna, età imprecisata, probabile overdose, dice il centralino.”  
Inizia così “I cieli di Philadelphia”, il nuovo romanzo di Liz Moore, giovane scrittrice e musicista americana che una decina di anni fa si era fatta conoscere con “Il peso”, vincitore del Rome Prize, edito in Italia da Neri Pozza. La prima sensazione è che “I cieli di Philadelphia” sia un thriller, in realtà la vicenda criminale fa solo da sfondo al romanzo, che si sviluppa invece come una storia familiare: dolorosa, cupa, con un colpo di scena a cento pagine dalla fine che rianima una trama a volte scontata e noiosa. Siamo a Kensington, uno dei quartieri più recenti dell’antica città di Philadelphia, abitato perlopiù da famiglie di origine irlandese, portoricani, afroamericani e asiatici. Qui vive e lavora Mickey Fitzpatrick, agente di polizia trentenne, single, madre di Thomas e sorella di Kacey, prostituta tossicodipendente, scomparsa proprio nelle settimane in cui a Kensington si aggira un serial killer di prostitute. La Moore racconta la storia alternando il passato “Allora”, al presente “Adesso”. Mickey e Kacey hanno vissuto un’infanzia difficile, sono state cresciute dalla nonna materna dopo la morte della madre in un incidente d’auto e l’allontanamento del padre. Oggi Mickey pattuglia Kensington alla ricerca di Kacey. Si fa aiutare da un ex partner e suo istruttore, Truman, convalescente per una misteriosa aggressione. Tra i due c’è del tenero – altro cliché. L’assenza della coprotagonista Kecey per oltre due terzi del racconto è la parte più interessante del libro. La toponomastica di Philadelphia, la seconda. “I cieli di Philadelphia” è una storia di rancori mai sopiti, di abbandoni, di tormenti compulsivi. La lunga scia di malasorte che accompagna la vita di Mickey, nel privato come nella professione, disturba, non giova alla credibilità della trama, la appesantisce inutilmente. Lo stesso vale per Kacey, il cui disagio esistenziale non brilla per originalità. Le sorelle Fitzpatrick non generano empatia, solo commiserazione. Troppo poco per un bel romanzo.

Angelo Cennamo

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L’ULTIMA CORRIERA PER LA SAGGEZZA – Ivan Doig

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È l’ultimo dei sedici romanzi di Ivan Doig, una delle voci migliori della letteratura americana più sconosciuta, che Nutrimenti e Nicola Manuppelli – traduttore e talent scout per conto dello stesso editore – ci ha fatto conoscere in questi anni, penso a scrittori come Don Robertson e Steve Yarbrough, tanto per fare qualche nome. Ivan Doig, che avevamo incrociato precedentemente con “Il racconto del barista”, è l’ultimo decano dell’Ovest, scrive Manuppelli nella postfazione del libro, accostandolo senz’alcun tentennamento a maestri del calibro di Steinbeck e Stegner, ma anche di Melville e Mark Twain. Twain, l’inventore di Tom Sawyer; lessi il suo romanzo, il mio primo libro americano, a undici anni, la stessa età che ha Donal, il protagonista de “L’ultima corriera per la saggezza”. Il cerchio che si chiude intorno a un mondo osservato e raccontato con gli occhi di un bambino. Perché è così che Doig muove le sue pedine sul foglio, ed è con questo spirito fanciullesco che certi romanzi vanno letti, spogliandoci cioè di ogni sovrastruttura, resettando qualunque cosa ci sia capitata dopo la maggiore età, tuffandoci nella trama come in un gioco. Il gusto del divertimento puro. “L’ultima corriera per la saggezza” è la storia di un viaggio, ma anche la metafora di un tempo, una dimensione che ci separa magicamente dal disincanto della vita adulta. Uno spazio dove i dati anagrafici non hanno alcun significato: piccoli e grandi nel romanzo di Doig sono la stessa cosa, si scambiano i ruoli. Tutti i passeggeri che accompagnano Donal nei suoi spostamenti sono degli eterni ragazzi: la fascinosa Leticia che lo seduce baciandolo sulle labbra; lo sceriffo con il fratellastro ammanettato; lo zio Herman, perfino il “personaggio” Jack Kerouac, lo scrittore leggendario che col suo “On the road” ha dato vita all’archetipo di certe narrazioni, e al quale questo libro vuole essere una specie di tributo. Il viaggio meraviglioso di Donal è allora un invito a conservare lo stupore dell’infanzia, un monito a non rinunciare ai sogni e alle illusioni. “L’ultima corriera per la saggezza” è un libro epico, commovente, una poesia lunga come un romanzo di cinquecento pagine e passa; una storia che contiene tutti i topoi della narrativa americana di frontiera, forse la più autentica, folle e genuina come i sentimenti del protagonista, eroe indimenticabile che segue le orme di altri giovani avventurieri della letteratura – l’Augie March di Saul Bellow, l’Huckleberry Finn di Mark Twain, il Theo Decker di Donna Tartt… – e del cinema: il Bruno Ricci di “Ladri di biciclette”, lo Spanky de “Le simpatiche canaglie”. Cos’altro aggiungerhe: leggete e sognate con Ivan Doig. Buon viaggio.
Angelo Cennamo
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HO FATTO LA SPIA – Joyce Carol Oates

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“Ho fatto la spia” era comparso nella sua prima versione sotto forma di racconto sull’Harper’s Magazine, nel 2003, con il titolo “Curly Red”. A distanza di sedici anni, la Oates – oltre cento libri all’attivo e numerosi premi, tutti tranne il Pulitzer e il Nobel, ne fa un romanzo ambizioso, lungo, denso di suggestioni, e indimenticabile per la sua trama – originale e mai scontata – per lo spessore dei protagonisti e dei comprimari che lo popolano, sia i buoni che i cattivi, ammesso che si riesca a distinguere gli uni dagli altri. Che storia è? “Ho fatto la spia” è un romanzo sulla dissoluzione di una famiglia: i Kerrigan. Un padre e una madre, sette figli, l’ultimo dei quali è Violet Rue, dodici anni all’inizio del racconto, la preferita di casa. Violet è anche la voce narrante del romanzo, scritto in una prima persona che a volte diventa seconda, altre volte addirittura terza.
Ci troviamo a South Niagara, nello Stato di New York, nei primi anni Novanta. I Kerrigan sono di origine irlandese, cattolici, ma più per tradizione che per osservanza. Jerome, il padre padrone, è un manovale di bell’aspetto, un ex pugile, il perno intorno al quale – pensa lui – devono muoversi tutti gli ingranaggi della famiglia; l’unico che può fare e disfare, forgiare, precettare, indicare, decidere. Dall’esterno, i Kerrigan appaiono come un monolite che difficilmente si lascerebbe scalfire. Papà Jerome, a seguire i figli maschi – Jerome jr e Lionel su tutti – poi le donne, anzi le femmine. Gerarchie. Una sera di novembre, Jerome jr e Lionel investono un ragazzo di colore. Sono ubriachi, forse più annoiati che ubriachi. Con una mazza da baseball lo pestano a sangue prima di dileguarsi. La morte del ragazzo, avvenuta qualche giorno dopo in ospedale, fa divampare il caso. Chi sono quei fuggitivi? La targa dell’auto? Violet conosce la verità. Ha ascoltato, ha percepito. La mazza da baseball è stata sotterrata vicino al fiume. Violet sa tutto. La confessione quasi rifiutata da Padre Greavy è il prodromo di un calvario senza fine. È a scuola che la ragazzina fa esplodere la bomba. Si attivano i servizi sociali, le indagini si concentrano sui responsabili. Jerome jr e Lionel non hanno più scampo, sono costretti a patteggiare una pena per omicidio preterintenzionale. È l’inizio della fine. Violet viene cacciata di casa, esiliata, affidata a una zia. “Tu credi che i tuoi genitori ti amino, ma è te che amano o il figlio che è loro.” La permanenza da zia Miriam nasconde molte insidie: Violet scopre il sesso nel modo peggiore, negli ammiccamenti e i palpeggiamenti di zio Oscar, poi del nazista Sandman, il professore di matematica che dopo la scuola abusa della “sgualdrinella” nella sua casa di campagna.
“Il mio segreto era non possedere alcuna attitudine naturale per nessuna materia – per la vita stessa. Mantenermi in vita. Evitare di annegare. Questa era la sfida.”
Raccontare la società americana, quella più gretta e razzista, attraverso le vicende familiari: la Oates lo aveva già fatto; come lei, altri suoi colleghi, da Franzen a Elizabeth Strout. I Kerrigan ci ricordano i Levov di Philip Roth, per esempio; la Oates ne celebra con ferocia la loro disintegrazione confezionando una Pastorale proletaria e in salsa irlandese. “Ho fatto la spia” è un libro che dovrebbero leggere soprattutto gli uomini, certi uomini, i padri. Le circa cinquecento pagine sono un compendio di brutalità che ancora oggi, negli Usa come in Europa, stentano a diradarsi. Violet le attraversa con imbarazzo e coraggio al tempo stesso, sbagliando, maturando, perseverando, andando incontro ad un destino forse già segnato, amaro, crudele, commovente.
Angelo Cennamo
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I CERCHI NELL’ACQUA – Alessandro Robecchi

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“Il delitto, qualunque delitto, dalle botte al furto in casa, fino all’omicidio, crea una scia di dolore che non è possibile calcolare. Il sassolino nell’acqua ferma produce un cerchio, poi un altro, poi un altro, i cerchi si allargano.”
Tarcisio Ghezzi e Pasquale Carella, sono loro e non il solito Monterossi, i protagonisti di questo settimo capitolo – mai definirla serie – del Grande Romanzo Milanese che Alessandro Robecchi sta scrivendo per Sellerio da un osservatorio duplice, quello borghese e mediatico dell’autore pentito di Crazy Love, il programma di gossip confezionato dalla tivù commerciale – “La Fabbrica Della Merda” – e pettinato da Flora De Pisis; quello sgangherato e proletario dei due poliziotti inseparabili, Ghezzi e Carella per l’appunto. Sorprende e dispiace non trovare anche in questo caso al centro della scena il Monterossi, vale a dire il personaggio cardine, il jolly intorno al quale ruotano tutte le trame di Robecchi, la sua simpatia, le sue contraddizioni di uomo e di autore televisivo, il suo osservatorio radical chic dei fatti del mondo. Evidentemente Robecchi avvertiva l’urgenza-esigenza di raccontare una storia diversa, sbirresca, più cupa, più amara, meno scanzonata delle altre. Una scommessa vinta, direi. Vinta perché “I cerchi nell’acqua” è un romanzo perfetto, lo è per ambientazione, costruzione, per gli intrecci polizieschi, per lo spessore filosofico – che parolone! – che ricaviamo dalle vite sbandate dei protagonisti e delle comparse, e dal senso estetico delle vicende narrate.
“È vero che cercava il Salina, è vero che ora cerca il Vinciguerra, ma quello che sta cercando veramente sono… quei trent’anni…dal giovane sbirro che era al vecchio poliziotto stremato dalle cose che ha visto…quei trent’anni che ora gli sembrano dieci minuti, un’ora, un tempo così corto da dire: beh, la vita? Tutto qui?”.
Facciamo un passo indietro. Il romanzo ha inizio con un invito a cena del Monterossi ai coniugi Ghezzi, Tarcisio e l’immancabile signora Rosa. Ghezzi e Monterossi si sono spesso incrociati sulle scene del delitto al punto di diventare amici, buoni amici. L’incontro in salotto, mentre le donne, Bianca e la signora Rosa, se ne stanno di là a inciuciare, ha il sapore di una confessione, di un’operazione a cuore aperto con la quale il Ghezzi, trent’anni di onorato servizio, racconta al suo compare di trame cosa vuol dire essere poliziotti, e di come il confine tra lecito e illecito, tra il bene e il male, sia spesso invisibile o poco chiaro a certe latitudini sociali. Facile sporcarsi le mani quando rischi la vita giorno e notte per quattro soldi. Che ne sa il Monterossi “di quel campo di grano”. Il racconto di Ghezzi apre di fatto due trame, una nella quale è coinvolto lo stesso Ghezzi, l’altra in cui il protagonista assoluto è Carella. Due storie – nelle quali non mi addentro – che finiranno per incrociarsi in un’unica traccia, ancora una volta avvincente, ricca di colpi di scena e soprattutto ben scritta. Alessandro Robecchi sa scrivere, e sa deragliare dal giallo all’attualità: “I cerchi nell’acqua” è un meraviglioso romanzo sociale sulla tentazione del male, nessuno si senta escluso. Forse il racconto di Ghezzi non è neppure una confessione. Forse è un’altra cosa, una specie di “corrispondenza da fuori”, da una parte del mondo che Carlo Monterossi non conosce e non può capire.
Angelo Cennamo
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UN ALTRO MONDO – James Baldwin

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Leggendo i romanzi di James Baldwin mi viene spesso da pensare a un altro scrittore afroamericano, di una generazione più giovane rispetto a quella di Baldwin: Percival Everett, autore che apprezzo non soltanto per il talento e l’ecletticità con la quale riesce a muoversi tra diversi generi, ma anche per la scelta di escludere da quello che scrive il tema dell’identità. Di Everett sappiamo che è di colore perché lo vediamo nelle foto, non per altro. Di tutt’altra pasta è il newyorchese Baldwin, che dell’identità, invece, ne ha fatto un segno distintivo di tutte le sue opere. “Un altro mondo” esce nel 1962, siamo alla vigilia della rivoluzione giovanile che negli Usa ingloba il Vietnam e i diritti civili. Al centro della storia c’è un giovane batterista di Harlem, Rufus Scott. Buona parte del romanzo è segnato dalla musica jazz e dalle canzoni di Bessie Smith “un negro, diceva suo padre, vive tutta la sua vita, vive e muore battendo il ritmo”. Nella prima parte, in un locale di Harlem, Rufus incontra Leona, una donna bianca della Georgia, molto più grande di lui, con un matrimonio burrascoso alle spalle e un figlio che le è stato portato via. Tra i due nasce una strana alchimia. In piena notte, Rufus e Leona passeggiano e flirtano per le strade di New York come i protagonisti di “Tre camere a Manhattan” di Georges Simenon. È uno dei momenti più intriganti del racconto, nel cui cast figurano anche altri personaggi interessanti, a cominciare da Vivaldo, amico scrittore e per certi versi martire dell’irrequieto Rufus; Cass, la moglie insoddisfatta di Richard, mentore e amico di Vivaldo; Ida, sorella di Rufus e unico familiare davvero interessato alla sua sorte. La relazione tra il nero Rufus e la bianca Leona è presto soffocata dalla violenza e la gelosia accecante di lui. Le ristrettezze e i pregiudizi, di ogni tipo, aggiungeranno altro combustibile all’implosione di un sentimento forse immaturo e fuori contesto. Vale per Rufus ma anche per gli altri, ciascuno dei quali, attraverso la ricostruzione della vita del giovane musicista, dovrà misurarsi con i propri ricordi e le colpe del passato. “Un altro mondo” è un romanzo commovente, dal retrogusto amaro. È un po’ la cifra di Baldwin quella di raccontare una società divisa nella quale né l’amore né l’amicizia possono accorciare le distanze. Baldwin merita più attenzione; bene ha fatto Fandango a riportarlo in libreria dopo anni di oblio. La traduzione è del grande Attilio Veraldi. Ricordate “La mazzetta”?
Angelo Cennamo
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LA VITA AGRA – Luciano Bianciardi

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Due parole su “La vita agra”, l’opera più nota – la sola opera nota – di Luciano Bianciardi, pubblicata la prima volta nel 1962 e ambientata nella Milano degli anni Cinquanta e Sessanta. Parto dalle cose che mi sono piaciute, poche. La scrittura. La prosa di Bianciardi è moderna, scorrevole, per nulla vischiosa, arzigogolata, ampollosa, tronfia, “letteraria”, come quella di tanti romanzieri della sua generazione. È interessante anche lo spaccato dell’Italia del boom economico: fedele, dettagliato, credibile, evocativo. Tutto il resto l’ho trovato abbastanza deludente, soprattutto l’approccio, come dire, pedagogico? Moralistico? Con il quale l’autore ha inteso raccontare il capitalismo che in quegli anni iniziava a delinearsi. Confesso che l’operazione di Bianciardi mi è sembrata sleale, finta, irritante. Bianciardi scrive un breve trattato socio-politico e lo maschera da romanzo, mi sono detto. Sindacalismo sotto mentite spoglie. Insomma, della buona dottrina marxista fatta passare per fiction. Ne “La vita agra” ritroviamo i temi e le invettive del più autentico Pasolini de “Gli scritti corsari”. Dei due libri ho preferito quello di Pasolini.

Angelo Cennamo

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