BULLET PARK – John Cheever

Molti di voi avranno letto Revolutionary Road, il romanzo più celebre di Richard Yates, uscito nel 1961 – edito in Italia da minimum fax – nel quale si raccontano le vicende di una giovane coppia della middle class americana che va ad abitare in un sobborgo di New York “Il complesso residenziale di Revolutionary Hill non era stato progettato in funzione di una tragedia. Anche di notte, come di proposito, le sue costruzioni non presentavano ombre confuse né sagome spettrali.” Esiste un altro romanzo, pubblicato otto anni dopo – nel 1969 esplodeva, tra l’altro, il fenomeno Philip Roth con Lamento di Portnoy – che, per quanto diverso per trama e personaggi, potremmo considerarlo gemello di quello di Yates: Bullet Park di John Cheever. Come pochi altri, e alla maniera di Yates, con sarcasmo, ferocia, Cheever ha saputo descrivere la media borghesia americana suburbana degli anni Cinquanta e Sessanta; i suoi tic, le nevrosi, i sogni realizzati o meno. I protagonisti di Bullet Park, libro diviso in due parti più una terza in cui le storie narrate si ricompongono, sono due uomini dal cognome stravagante: Eliot Nailles (Nailles tradotto in italiano è chiodo) e Paul Hammer (Hammer vuol dire martello). Cosa unisce i due personaggi oltre il “misterioso potere dell’etimologia”? Nulla eccetto il finale pirotecnico nel quale Cheever fa incrociare le loro vite. Nailles è un uomo comune: marito affettuoso e padre premuroso di Tony, ragazzo sprofondato nella depressione e guarito magicamente da un santone. Hammer è un figlio illegittimo cresciuto senza genitori, con un cognome casuale e beffardo, e una strana ossessione per i sacrifici umani “per dare una scossa al mondo”. Manca poco. Hammer è a un passo dal suo obiettivo, poi “tutto ridivenne bello, bello, bello ma bello come era sempre stato”.

Angelo Cennamo

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GREAT JONES STREET – Don DeLillo

“La celebrità esige ogni eccesso”. Leggere l’incipit di Great Jones Street nel giorno del commiato al più esagerato dei calciatori della storia, fa un certo effetto. DeLillo lo pubblicò nel 1973, tre anni dopo l’esordio di Americana. Protagonista del romanzo è una giovane rockstar che, all’apice del successo e durante una tournée, decide di abbandonare la propria band e di rifugiarsi in un angolo di New York, Great Jones Street, in “un monolocale piccolo e sbilenco e gelido che si affacciava su un panorama di capannoni, autocarri e macerie sparse”. Bucky Wunderlick e la sua Opel, artista senza talento, chiusi in casa a conversare a sfidarsi e a fare sesso come Brando e Schneider in Ultimo tango a Parigi. Bucky si sente “una vecchia cariatide del mondo dello spettacolo…L’industria musicale mi ha completamente distrutto.” Opel viaggia di continuo, e come tutti i viaggiatori “è noiosa”.
Al piano di sopra, Fenig, scrittore sconosciuto in attesa di gloria; a quello di sotto un giovane storpio. Nel suo monolocale Bucky riceve le visite di giornalisti a caccia di scoop, curiosi, emissari di una Comunità Agricola che vorrebbe lanciare sul mercato una nuova droga governativa che serve a fare il lavaggio del cervello “ai musi gialli o ai comunisti”. Perché Bucky è fuggito dai riflettori? Perché non esiste libertà senza privacy, prova a spiegarci DeLillo negli anni in cui due star della musica italiana – Mina e Battisti – fecero la stessa scelta del suo personaggio. Dopo il frastuono, la pace. Dopo il rumore, il silenzio, in una specie di preveggenza di due altre opere: Rumore Bianco e The Silence, uscito negli Usa poche settimane fa. L’isolamento di Bucky è la sola reazione possibile alla massificazione di una cultura piatta e senza slanci: forse è questo il senso delle 237 pagine del romanzo, non il migliore di Don DeLillo ma pur sempre un romanzo di DeLillo.

Angelo Cennamo

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MOTEL LIFE – Willy Vlautin

Willy Vlautin è uno scrittore e musicista – leader dei Richmond Fontaine, ora membro dei Delines. “Motel Life”, uscito negli Stati Uniti nel 2006, è il suo romanzo d’esordio. Buona parte del libro Vlautin l’ha scritta a Portland, Oregon, ma la storia è ambientata nella sua Reno, piccola località del Nevada conosciuta per i casinò. A quel tempo in città c’erano più di centoventi motel ma con la costruzione delle strutture che combinavano sale da gioco e albergo, i motel uscirono di fatto dai circuiti turistici per iniziare ad ospitare soprattutto vagabondi, tossici, ex detenuti. È questo lo scenario dove Vlautin fa muovere i protagonisti del suo romanzo: Frank e Jerry Lee Flannigan. Frank e Jerry Lee sono due fratelli minorenni abbandonati a sé stessi: la madre è morta di cancro, il padre è scappato chissà dove. Un misero fondo pensione, quattro soldi lasciati in una scatola e un nonno nel Montana, troppo povero per occuparsi di loro, i due fratelli si barcamenano tra studio e lavori stagionali. Frank è un raccontastorie nato, Jerry Lee, che ha una gamba “sfigata” per via di un incidente ferroviario, ama invece disegnare. La storia ha inizio con un evento tragico: Jerry Lee investe un ragazzino e lo uccide. È notte fonda, nevica, forse non lo ha visto nessuno. La morte del ragazzino fa sprofondare il fratello di Frank – voce narrante del romanzo – in un angosciante stato di prostrazione. Frank gli è vicino, lo rincuora, lo accudisce. Frank ama suo fratello. Ma non basta: fin dalle prime pagine il destino dei Flannigan sembra segnato per sempre. In uno dei passaggi più emozionanti del libro il vecchio e paterno Earl, un rivenditore di auto usate, una specie di vincitore morale del romanzo, forse il personaggio che Vlautin ha disegnato meglio degli altri, suggerisce a Frank di inventarsi un posto dove andare. Quando hai il morale a pezzi, dice Earl, immagina di rifugiarti in un posto che nessuno può portarti via. L’affetto di Earl per Frank commuove. Ma se i Flannigan sono impantanati nell’infelicità, Annie, la ragazza di Frank, riesce a trovare la forza di liberarsi dalla malasorte e da una madre che la sfrutta sessualmente. Lei ce la farà. “Motel Life” è una storia meravigliosamente triste, raccontata con poche parole, precise, potenti. Un road book che non si dimentica. La scrittura piana di Willy Vlautin ricorda quella di Carver e Kent Haruf. Bravo Vlautin e brava la Jimenez Edizioni che ce lo ha fatto conoscere. 

Angelo Cennamo

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I libri del 2020 scelti da Telegraph Avenue

Una bambina scopre che uno dei suoi fratelli ha ucciso un ragazzo di colore. La confessione di quel segreto le costerà l’allontanamento dalla famiglia (Ho fatto la spia – Joyce Carol Oates – La Nave di Teseo). La vittoria di Trump alle elezioni del 2016 getta nel panico un gruppo di amici newyorchesi radicalchic. Una di loro decide di trasferirsi in Italia (Il decoro – David Leavitt – Sem ). Quattro ex compagni di liceo si ritrovano una notte d’estate nella cittadina che avevano lasciato alcuni anni prima (Ohio – Stephen Markley – Einaudi). Un giovane studente, campione di oratoria, rimane invischiato in una storia di bullismo (Topeka School – Ben Lerner – Sellerio). Migliaia di americani, costretti dalla crisi, attraversano il paese in camper alla ricerca di lavori stagionali (Nomadland – Jessica Bruder – Edizioni Clichy). Sono i cinque libri del 2020 scelti da Telegraph Avenue e votati da migliaia di lettori. A dicembre sapremo quale sarà il libro dell’anno.

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CHE DIO CI PERDONI – A.M. Homes

Harold Silver è un professore di storia ossessionato da Richard Nixon, forse un giorno ci scriverà un libro. Ha una moglie cinese che lo mollerà nella prima parte della storia; un fratello più giovane, George, direttore di un canale televisivo; una cognata molto seducente, Jane; due nipotini: Nate e Ashley. Harold invidia George: il suo fascino, il successo professionale, il benessere familiare, la moglie, sopratutto, con la quale sta per avere una relazione disastrosa. Siamo alla scena iniziale di “Che Dio ci perdoni” di Amy Michael Homes, meglio conosciuta come A.M.Homes, scrittrice di Washington trapiantata a New York, considerata tra le voci più interessanti della nuova narrativa americana. Non so dire quante copie abbia venduto la Homes di questo romanzo, uscito in Italia nel 2012 – dove mi trovavo quell’anno per non averne sentito parlare? Non mi sorprenderei se fossero meno di mille, a conferma del fatto che la lista dei grandi autori d’oltreoceano semisconosciuti è piuttosto lunga. Ma rimaniamo sul pezzo. In un incidente d’auto, George uccide una coppia di coniugi. È fuori di sé, lo ricoverano in una struttura psichiatrica. Nelle stesse ore, Claire, la moglie di Harold, è volata in Cina, mentre Jane è a letto con suo cognato. Siamo alla seconda scena del romanzo. Da qui la storia innescherà un tagico effetto domino che finirà per travolgere ogni cosa. Non aggiungerò altro sulla trama, che, almeno nella prima parte, è abbastanza semplice, anche lineare. Tutto il resto no. La seconda vita di Harold è un turbinio di inciampi e disavventure, di incontri erotici su internet, scompensi fisici, possibili adozioni e stravolgimenti professionali fino ad allora inimmaginabili. Le tracce parallele al tema principale sono tante, forse troppe. Leggendo il libro mi è venuta in mente la parabola dei Levov, la famiglia perfetta di “Pastorale Americana”. La Homes, da una prospettiva diversa, segue lo stesso percorso di Philip Roth: distrugge il mito, dissacra, sbugiarda, ridicolizza, spegne le luci sullo storytelling della felicità borghese. “Che Dio ci perdoni” è un romanzo sopra la media per qualità della scrittura – ritmo sostenuto, repentini cambi di registro – spessore e umanità dei personaggi; per come la Homes ha saputo raccontare le vicende di tutti con le voci di tutti: donne e uomini, adulti e bambini; per la precisione e la brillantezza dei dialoghi, certamente il suo punto di forza; per la comicità che sconfina nel sarcasmo con la quale l’autrice ha accompagnato anche i passaggi più drammatici del racconto. Insomma, un bellissimo libro ma con almeno cento pagine di troppo.

Angelo Cennamo

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I 20 LIBRI AMERICANI DEGLI ULTIMI VENTI ANNI di Telegraph Avenue

  • Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay – Michael Chabon (2000)
  • La macchia umana – Philip Roth (2000)
  • Casa di foglie – Mark Z. Danielewski (2000)
  • Le correzioni – Jonathan Franzen (2001)
  • Sei pezzi da mille – James Ellroy (2001)
  • La sottile linea scura – Joe Lansdale (2002)
  • Il velo nero – Rick Moody (2002)
  • Cosmopolis – Don DeLillo (2003)
  • Oblio – David Foster Wallace (2004)
  • Il potere del cane – Don Winslow (2005)
  • La strada – Cormac McCarthy (2006)
  • Gilead – Marilynne Robinson (2008)
  • Nemesi – Philip Roth (2010)
  • 22.11.63 – Stephen King (2011)
  • Il re pallido – David Foster Wallace (2011)
  • Canada – Richard Ford (2012)
  • Il cardellino – Donna Tartt (2013)
  • Il figlio – Philipp Meyer (2013)
  • Benedizione – Kent Haruf (2013)
  • Lincoln nel bardo – George Saunders (2017)
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RAGAZZA, DONNA, ALTRO – Bernardine Evaristo

Dopo anni di gavetta in teatri off e centri sociali, Amma Bonsu – regista nera e militante, lesbica, troia multietnica, come la definirebbe la figlia Yazz – sta per debuttare al National Theatre di Londra. Nel pubblico, oltre Yazz, ci sarà Roland – l’intellettuale-gay-narcisista con il quale Amma ha concepito la sua unica figlia “puoi chiamarmi Roland, no, papà, tu sei mio papà” – e la vecchia amica Shirley. Mancherà invece Dominique, l’altra amica con la quale Amma ha vissuto gli anni del suo apprendistato underground, tra bettole e festival femministi. È questa la traccia che apre e chiude “Ragazza, donna, altro”, il romanzo di Bernardine Evaristo – scrittrice londinese, di padre nigeriano – che nel 2019 ha vinto il Man Booker Prize, e nell’ultimo scorcio del 2020 è stato pubblicato in Italia da Big Sur con la traduzione di Martina Testa. Il libro contiene dodici storie di donne – nere e meticce, anziane e giovanissime, ricche e povere, gay e etero – che messe insieme danno vita ad un’opera polifonica e controcorrente di grande attualità; il miglior ritratto, forse, dell’Inghilterra negli anni della Brexit. Il romanzo affronta temi legati molto anche all’identità della stessa autrice: l’omosessualità, la militanza politica, l’ambizione, il desiderio di emancipazione e di riscatto. Come Zadie Smith, scrittrice con un pedigree simile al suo, Bernardine Evaristo usa come scenario la metropoli multietnica, il suo melting pot: difficile non rivedere in questo libro la fusion di “Swing Time” e di “N-W”. La prosa di Evaristo è vorticosa, elastica, di ampio respiro, moderna, e con una struttura davvero insolita: i punti sono sostituiti dai capoverso, niente maiuscole, né virgolette o trattini nei dialoghi. Bello. Bellissimo. Non perdetevelo.

Angelo Cennamo

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L’OPZIONE DI DIO – Pietro Caliceti

Con “BitGlobal” ci ha raccontato il suo mondo, quello della finanza e dei grandi studi legali. Tre anni dopo – non sono pochi per un autore di thriller – Pietro Caliceti ritorna con una nuova storia di corruzione, stavolta ambientata in Vaticano, tra porporati e banchieri poco scrupolosi. Ha avuto coraggio, Caliceti, ad avventurarsi nei luoghi sacri e scivolosi della Chiesa romana, già battuti da altri romanzieri, italiani e non, da Dan Brown a Carrisi, passando per Daniel Silva e Roberto Costantini. Ma “L’opzione di Dio” non si allinea al ciclostile di certe narrazioni corroborate da iperbolismi fantasy o incentrate sul delitto di giovani sprovvedute: Caliceti alza l’asticella e, senza mezzi termini, colloca il dramma direttamente nel Conclave. Un attentato jihadista, il primo in Italia, proprio a Roma, davanti a San Pietro, ha gettato la cristianità nel terrore. La trama procede su tre fronti, suddivisi in paragrafi alternati e brevi (viva i paragrafi brevi): le indagini della polizia, la visuale del contendente progressista, quella del rivale conservatore. Tutto è doppio, binario, in questo romanzo: la sfida al soglio pontificio; la contrapposizione Fede/Ragione incarnata dai fratelli Alessio e Giovanni Macchia (uno prelato, l’altro avvocato indagatore); lo scontro/confronto tra Islam e cristianesimo, materialismo e spiritualità. Caliceti dosa con cura ciascuno dei temi affrontati adoperando il suo know how giuridico per incunearsi nei meccanismi oscuri dello IOR. Il denaro, la pedofilia, il perdono, l’utopia della redenzione: “L’opzione di Dio” è un romanzo denso di tracce, ritmato, ben scritto e ben documentato, lungo ma non prolisso, leggendolo non si corre il rischio di perdersi in inutili divagazioni o flashback onirici: le piste sono nitide, i misteri no. Caliceti ha confezionato un page turner dai meccanismi perfetti, un libro che intrattiene, suggestiona, istruisce. Non è poco. 

Angelo Cennamo

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ORE DISPERATE. L’ultimo processo di Harper Lee – Casey Cep

“Scrivere è facile: tutto ciò che devi fare è sederti e fissare un foglio bianco fino a quando sulla fronte non fioriscono gocce di sangue.”
Questa è la storia di un best-seller mancato e di cinque delitti più uno, commessi negli anni Settanta in una piccola contea del profondo Sud degli Stati Uniti. Una storia vera, verissima, raccontata come se fosse un romanzo. Ma veniamo ai fatti. Siamo in una cittadina dell’Alabama, costruita alcuni decenni prima nei pressi del lago artificiale Martin. Qui vive e predica un reverendo afroamericano di nome Willie Maxwell. Willie è un uomo altissimo, oltre il metro e novanta “abbastanza alto da sovrastare quasi ogni altro uomo, e abbastanza magro da passare tra due”. Elegante, cordiale, Willie piace alle donne per lo stile fuori dal comune e per la capacità, rara, di saper ascoltare. Il ruolo di pastore metodista e l’aura bonaria e perbene che lo accompagna, nascondono però un lato oscuro e inimmaginabile della sua natura. Willie è un serial killer della peggiore specie: in pochi anni ha ucciso cinque membri della sua famiglia per intascare i soldi delle polizze assicurative. Casey Cep, giovane giornalista del New Yorker, fa una ricostruzione molto dettagliata, sia dei luoghi dove il reverendo si muove, sia del mondo assicurativo americano di quegli anni – interessanti le pagine dedicate al padre di Philip Roth, assicuratore di Newark che quel ginepraio di approssimazione lo conosceva bene. I delitti del reverendo Maxwell sono silenziosi, senza tracce di sangue, indimostrabili anche grazie alle difese di Tom Radney, attivista liberal e miglior avvocato in circolazione di tutta l’Alabama. Radney è molto abile a smontare ogni accusa e a respingere le eccezioni delle compagnie assicurative più recalcitranti, ma dovrà superarsi quando si ritroverà ad assumere nientedimeno che le difese dell’uomo che ucciderà Maxwell con tre colpi di pistola davanti a decine di persone.  Siamo a pagina 200. Sulla scena del processo al reverendo compare Harper Lee, scrittrice dell’Alabama, autrice di un solo romanzo che diciotto anni prima le aveva fatto vincere il Pulitzer e resa celebre in tutto il mondo. Casey Cep le dedica tutta la seconda parte del racconto, ne tratteggia la biografia ma anche i timori, le frustrazioni: dopo “Il buio oltre la siepe” la Lee non era riuscita a scrivere più nulla. La storia del reverendo Maxwell può diventare il plot di un insperato successo editoriale, liberarla finalmente da uno stallo che si protrae da tanto tempo. L’idea è più o meno quella che ispirò Truman Capote quando con il suo aiuto, proprio della Lee, gettò le basi di “A sangue freddo.” Sembra facile, ma non lo è. Non lo sarà. L’operazione di Harper Lee non trova nessuno sbocco, si perde tra mille appunti, bozze, cassetti. Eppure quella storia, maledettamente vera da sembrare finta, prima o poi andava raccontata. Il libro che Harper Lee non è riuscita mai a pubblicare lo ha riscritto nel 2019 Casey Cep. Ora in Italia con la traduzione impeccabile di Sara Bilotti e la benedizione di Luca Briasco, scopritore di talenti e di capolavori sconosciuti. Leggetelo, ne vale la pena.

Angelo Cennamo

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L’INCANTO DEL LOTTO 49 – Thomas Pynchon

Di Thomas Pynchon abbiamo perso le tracce da molto tempo. È ancora vivo? Come Salinger, ha scelto di non apparire neppure nelle foto. Ne abbiamo viste al massimo tre o quattro, tutte risalenti agli anni Cinquanta, più o meno. “L’incanto del lotto 49”, in Italia edito da Einaudi con la rinnovata traduzione di Massimo Bocchiola, è il suo romanzo più breve. Siamo nel 1966. Il primo romanzo post-moderno americano, dice qualcuno – Einaudi, per esempio – trascurando però i precedenti di John Barth: “L’opera galleggiante” (del 1956 poi riveduto e corretto nel 1967) e “La fine della strada” (del 1958). Fatto sta che Pynchon, autore tra l’altro di uno dei libri più straordinari e incomprensibili del Novecento, “L’arcobeno della gravità”, al postmodernismo ha dato di sicuro un’accelerazione importante, decisiva, anche didattica, visto il numero di scrittori che negli Usa e non solo si sono abbeverati alle sue fonti, a cominciare da David Foster Wallace: avrebbero visto la luce libri come “Infinite jest” o “La scopa del sistema” se non fossero stati preceduti di qualche decennio  dalle narrazioni altrettanto geniali e strampalate di Pynchon? Difficile dirlo. Difficile come leggere e capire fino in fondo quello che scrive Pynchon, districarsi nelle sue finte trame, in quelle digressioni persino più interessanti del tema centrale, che non esiste. La protagonista de “L’incanto del lotto 49” è una casalinga (Oedipa Maas), moglie di un disc Jockey (Mucho Maas), nominata esecutrice testamentaria di un suo ex fidanzato (Pierce Inverarity). Oedipa si ritrova coinvolta in una misteriosa rete di sovversivi che gestiscono un sistema di comunicazione alternativo e sotto traccia. Messa così non significa un accidente, ma tutta la vicenda con i suoi corollari – nei quali neppure mi addentro – non è che una gigantesca allegoria: Pynchon dice e non dice, a volte dice troppo, il superfluo, sì ma il superfluo rispetto a cosa? I libri di Pynchon sono come quegli abiti stravaganti che vediamo sulle passerelle dei grandi stilisti: non li indossa nessuno però ci indicano una direzione. Pynchon ha seminato in un terreno nuovo e questo romanzo breve – 174 pagine – è forse il suo frutto migliore.

Angelo Cennamo

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