Leroy Kervin è un soldato della Guardia Nazionale ferito in Iraq. Rientrato negli Stati Uniti viene ricoverato prima in una casa famiglia per disabili, poi in ospedale a seguito di un tentativo di suicidio.
Freddie McCall prova a risollevarsi dopo aver perso tutto: la famiglia, la casa ereditata dai genitori. Fa più lavori, non tutti leciti, per pagarsi debiti e bollette.
Pauline Hawkins è un’infermiera disillusa. Vive da sola, con un padre malato di mente. L’incontro fortuito con un’adolescente drogata e in fuga diventa per lei un’occasione di rinascita.
Sono loro i tre protaginisti di “The Free”, romanzo uscito negli Usa nel 2014, pubblicato in Italia cinque anni dopo da Jimenez, con la traduzione di Gianluca Testani. Di Willy Vlautin avevo già letto “Motel Life”, uno dei suoi quattro libri in circolazione, gli altri due sono “Verso nord” e “Io sarò qualcuno”. Vlautin è uno scrittore-musicista del Nevada, qui da noi semisconosciuto, ma dal talento cristallino, tra i migliori autori americani della sua generazione. Leroy è il reduce che abbiamo già visto in tante altre narrazioni, anche cinematografiche. I suoi flashback in corsivo sono lampi di guerra e ricordi sbiaditi di un amore forse finito. Freddie è un uomo sconfitto e nostalgico, ma volenteroso, non si dà per vinto. Il rapporto tra Pauline e la sua giovane paziente Jo, la strana e ambigua alchimia che si genera tra queste due donne di età diverse, ricorda l’affetto smarginato tra Elisabetta e Almarina nel bel romanzo di Valeria Parrella. Pauline è il personaggio riuscito meglio, per profondità, sensibilità, e per il modo in cui Vlautin la pone in relazione con gli altri. Leroy, Freddie, Pauline, così diversi e così uguali. Ciascuno dei tre cerca di dare un senso alla propria sofferenza. “The Free” è un libro sul dolore e la disperazione che però non affligge i lettori, piuttosto li invita a sperare. Somiglia a “Benedizione” di Kent Haruf, la stessa resilienza composta e silenziosa dei personaggi, la stessa saggezza genuina della provincia americana. Quello è il clima, quella la prosa. Vlautin è l’erede di Haruf.
Pare che il nuovo romanzo di Cormac McCarthy, “The Passenger”, sia ambientato a New Orleans e che i protagonisti siano un fratello e una sorella. Altro non è dato sapere. Neppure la data. Difficilmente però lo leggeremo il prossimo anno. Tutto pronto invece per Don DeLillo. Il suo “The Silence”, “Il Silenzio”, arriverà in Italia i primi di febbraio. Il 12 gennaio ritroveremo Don Winslow con “Ultima notte a Manhattan”. Per marzo è prevista la pubblicazione – in contemporanea mondiale – di “Later”, il cinquantatreesimo (?) libro di Stephen King. A maggio ritornerà il premio Nobel Kazuo Ishiguro con “Klara and Sun”. A ottobre, dopo i due saggi ambientalisti, l’attesissimo “Croassroads”, il sesto romanzo di Jonathan Franzen, il primo di una trilogia che si preannuncia molto interessante. Come con “Le Correzioni” e “Libertà”, si tratterà ancora una volta di una complicata storia familiare, quella degli Hildebrandt. Traduzione di Silvia Pareschi. Nel 2021 torneranno in libreria anche Joan Didion e George Saunders con due raccolte di saggi, e il pluripremiato Colson Whitehead.
“Cos’è giusto? Se si vuole una cosa, è giusto prendersela. Se si vuole fare una cosa, è giusto farla” Questo è Clay, il giovane protagonista di “Meno di zero” – l’esordio di Bret Easton Ellis – fratello minore, forse, di Patrick Bateman che è invece la voce narrante del romanzo di cui sto per parlarvi, uscito sei anni più tardi, nel 1991. Pochi scrittori hanno raccontato gli anni ’80 come Ellis. Uno di questi è Jay McInerney, collega, amico, persino personaggio di un altro libro di Ellis: “Lunar Park”. “American Psycho” è la sintesi, meglio la summa di una bibliografia non amplissima che ripete se stessa senza annoiare, declinando ogni possibile variabile di quell’indimenticato spazio-tempo di leggerezza e vacuità. Sempre in “Lunar Park” Ellis confessa che il personaggio di Bateman fu ispirato dal padre, con il quale il golden boy dell’avantpop ebbe un rapporto piuttosto conflittuale. Leggendo “American Psycho” mi è tornato in mente John Self, l’eterno scontento di “Money” di Martin Amis, romanzo gemello di questo per la centralità che in entrambe le storie assume l’ossessione per il consumismo – “edonismo reaganiano” lo chiamava qualcuno. Patrick Bateman se ne va in giro con i colleghi Timothy Price, Craig McDermott e David Van Patten nella Manhattan che un decennio dopo sarà attraversata dalla Limousine di Eric Packer – “Cosmopolis” di Don DeLillo – il quinto uomo virtuale di quella combriccola di milionari infelici e gaudenti che discute di aragoste, “corpiduri” e abiti firmati. Bateman scannerizza – non guarda – gli invitati alle feste, Bateman cerca disperatamente dosi di cocaina, Bateman seduce shampiste, prostitute e studentesse, prima di scuoiarle vive ( le scuoia per davvero?), Bateman prenota tavoli nei ristoranti più chic – tutto il romanzo o quasi è ambientato nei ristoranti di Manhattan – Bateman va in palestra, Bateman abbina rolex e cravatte, Bateman osserva i capi griffati dei suoi interlocutori, Bateman noleggia videocassette di film spazzatura, Bateman discute di sociologia con i barboni all’uscita dai taxi, Bateman deride i barboni, Bateman i barboni qualche volta li uccide (il confronto con Al tra pagina 154 e 157 meglio saltarlo se siete deboli di stomaco), Bateman l’uomo delle tre S: Sesso-Sballo-Sangue. Insomma, Bateman è un dannato mostro e “American Psycho” kilometri di realismo. Può bastare ad infiocchettare un grande romanzo? si chiedeva retoricamente Saul Bellow. Può bastare, Saul, può bastare.
“La vita a Crum era gaia, un folle vortice di ignoranza abietta, emozioni che tracimavano emozioni, sesso che tracimava amore, e talvolta un po’ di sangue a ricoprire il tutto.” Ho preso questa vecchia edizione di “Crum” edita da Barney – qualche anno dopo il romanzo è stato ripubblicato da Mattioli 1885 col titolo “Lontano da Crum”, sempre con la traduzione di Nicola Manuppelli – perché da tempo ero incuriosito dal maledetto Lee Maynard, l’ingrato, lo scurrile, il bad boy del West Virginia, dalle sue storie disturbanti e scandalose, dal suo minimalismo carveriano. Crum non è un luogo di fantasia, esiste. Maynard ci è nato e vissuto, prima di fuggire via come Jesse Stone, il giovane protagonista e voce narrante della storia. Poco più di duecento abitanti, una scuola, una chiesa, l’emporio di Clyde, una strada non asfaltata, niente illuminazione pubblica né rete fognaria, il paesino è situato proprio sul confine tra il West Virginia e il Kentucky “in fondo alle viscere degli Appalachi.” Quando Maynard pubblica il romanzo (1985), molti suoi connazionali storcono il naso, altri si indignano, al punto che il libro viene bandito. Cosa ci sia di così irritante e di sconcio nelle avventure di Jesse Stone resta difficile da capire per chi immagina gli Stati Uniti come un monolite di civiltà e benessere, senza distinguere la California dal Nebraska o New York da Jackson. La Crum di Maynard non è poi così diversa dalla Holt di Kent Haruf, dalla Butcher’s Crossing di John Williams, dalla Thalia di Larry McMurtry, e forse neppure dalla Basilicata di Carlo Levi. È un’America rurale, silenziosa, a volte spietata ma profondamente umana. Precaria. Di passaggio. Niente e nessuno è stabile, a Crum: i professori ci alloggiano il tempo strettamente necessario al completamento dell’anno scolastico; e ciascuno dei compagni di gioco e di sesso di Jesse è come lui alla disperata ricerca di denaro “Per me il denaro era una cosa sola, una cosa che pensavo non avrei mai avuto: un biglietto per andarmene da Crum.” Fuggire da Crum, da quello “stagno luccicante di tetti di lamiera” e da quelle giornate noiose e ripetitive è il tema ricorrente del libro. Un sogno martellante per Jesse. Si può? E a quale prezzo? “Puoi portar via un ragazzo dal Kentucky, ma non puoi portar via il Kentucky da lui” scrive J.D. Vance in “Elegia Americana”. Il ribelle Jesse lo avrà capito.
“Mi chiamo J.D. Vance, e penso che dovrei iniziare con una confessione: trovo l’esistenza del libro che avete in mano piuttosto assurda. Ho trentun anni e sono il primo ad ammettere di non aver realizzato nulla di particolare nella mia vita, perlomeno nulla che dovrebbe indurre un perfetto sconosciuto a sborsare dei soldi per leggerlo.”
Quando nel 2016 viene pubblicato “Elegia Americana” (titolo originale “Hillbilly Elegy” – Hillbilly è il soprannome dato ai buzzurri montanari dei Grandi Appalachi), J.D. Vance è un giovane venture capitalist laureato a Yale. Il libro, erroneamente classificato come saggio, è il romanzo della sua vita. La vita, come recita l’incipit, di un uomo che non ha stabilito record né compiuto imprese mirabolanti, ma realizzato un sogno, quello sì, fino a pochi anni prima inimmaginabile. Non un trattato sociologico, dunque, piuttosto una saga familiare di ampie vedute nella quale pubblico e privato si fondono in un’unica trama. J.D. vive tra il Kentucky e l’Ohio, con una madre drogata che colleziona mariti e amanti più giovani di lei; poi con la nonna: donna battagliera, a dire il vero violenta, violentissima, ma anche generosa e protettiva. Intorno a loro, un’umanità indolente di bianchi proletari, gretti e infelici, che lavano con il sangue il disonore, e che vivono perlopiù di sussidi “C’era qualcosa di spirituale nello scetticismo della comunità locale, qualcosa che andava molto più in profondità di una breve recessione.”
Le radici sono il tema portante del libro, specialmente le differenze tra il Kentucky e l’Ohio, e la comunanza dei dogmi religiosi e laici che connota l’intera area rurale degli Appalachi “Puoi portar via un ragazzo dal Kentucky, ma non puoi portar via il Kentucky da lui.”
Leggendo della vita di J.D., soprattutto della sua infanzia burrascosa nei contesti degradati di Jackson e di Middletown, mi sono tornati in mente altri libri che raccontano la stessa America desolata e declinante, da “Ruggine Americana” di Philipp Meyer, ai più recenti “Ohio” di Stephen Markley e “Nomadland” di Jessica Bruder. “Elegia Americana” segue quella scia. Non è un libro sull’America di Trump, come pensa qualcuno (il tycoon newyorchese non viene mai citato, anche perché è arrivato alla Casa Bianca qualche mese dopo), è un libro sul coraggio, sul riscatto e la speranza.
V.I. Warshawski – V sta per Victoria, I per Iphigenia – è una giovane investigatrice di padre polacco – poliziotto anche lui – di madre italiana. Vic, tutti la chiamano così, si è scelta un lavoro difficile, specie per una donna – tenete presente che siamo tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Un lavoro soprattutto oneroso e poco retribuito: bollette da pagare impilate sulla scrivania, di fianco alla Olivetti e alla foto degli Uffizi – Vic è mezza italiana e tiene a farcelo sapere – fitti arretrati. Ma è una donna libera, Vic, e la sua indipendenza non la baretterebbe con niente e nessuno, manco a dirlo con un secondo matrimonio, dopo la breve incursione nel primo finita in un “divorzio carico di acrimonia” – umana troppo umana, Vic. Un giorno, anzi una sera e nel corso di un blackout, alla porta del suo ufficio bussa il funzionario di una grossa banca per chiederle di rintracciare la fidanzata del figlio. Basteranno poche decine di pagine per scoprire che quell’uomo non è chi dice di essere, che la ragazza da ricercare ha un altro cognome, e che il fidanzato è morto ammazzato nel suo appartamento con un colpo di pistola alla tempia. Inizia così “I re della truffa”, romanzo del 1982, già pubblicato in Italia da Mondadori nel 1983 con il titolo “Nel freddo della notte”, e ritornato in libreria nel 2020 con Minimum fax e la traduzione di Luca Briasco. L’autrice è Sara Paretsky, tra le più apprezzate scrittrici di polizieschi, anche lei, come la sua eroina, americana di padre polacco e di madre italiana. “I re della truffa” è il primo romanzo di una fortunata serie che, immaginiamo, Minimum fax voglia farci conoscere nella sua interezza. La Paretsky colloca la storia nella sua Chicago, già città di Al Capone e scenario ideale per delle crime novels. Ma è una Chicago meno grigia e terrificante di altre narrazioni, anche cinematografiche; una metropoli quasi solare, complice lo stile fresco, ritmato e rassicurante dell’autrice. La vicenda, sulla quale eviterò di addentrarmi, ruota intorno ad una ingarbugliata questione assicurativa e al mondo sindacale. Non ci sono secondi fini nel racconto della Paretsky – almeno non mi sembra di averne colti – ma con tutta evidenza il ruolo dell’investigatore donna scelto come protagonista della serie fa un certo effetto. Come dicevo, il romanzo è uscito negli Usa nel 1982; prima di allora non era usuale affidare a delle signorine il compito di indagare o di sgominare una banda di criminali. V.I. Warshawski debutta nella letteratura poliziesca molti anni prima della Renée Ballard di Michael Connelly e della Holly Gibney di Stephen King. Molto prima anche di tante sue colleghe europee. Rifletteteci: non è un dettaglio di poco conto. Vic è una ragazza semplice ma determinata e combattiva, decisa a superare aggressioni fisiche e tentativi di corruzione pur di scardinare ogni mistero. Quando un collega di suo padre tenta di dissuaderla – “Lascia che se ne occupi la polizia” se lo sentirà ripetere spesso – Vic non sembra affatto intimorita, anzi quel monito finirà per caricarla ancora di più. “I re della truffa” è un poliziesco dai meccanismi perfetti, ben scritto, Vic un personaggio vero – fragile e coraggiosa al tempo stesso – del quale vi innamorerete fin dalle prime battute. Cos’altro aggiungere; dopo Hebert Lieberman, Minimum fax accende la luce su altro grosso calibro della letteratura crime americana qui in Italia poco conosciuto. Aspettiamo le nuove avventure.
Tutti i romanzi di Philip Roth raccontano la vita di Philip Roth. Alcuni sono sfacciatamente autobiografici: “La mia vita di uomo”, “La controvita”, “I fatti”, “Patrimonio”, “Zuckerman scatenato”…altri meno. “Indignazione” esce nel 2008, è il terzultimo romanzo di Roth, il capolavoro della maturità nel quale l’autore di Newark torna a vestire i panni del figlio. Se fosse vissuto una decina di anni in più, Marcus Messner, il giovane protagonista nonché voce narrante del libro, sarebbe diventato probabilmente l’Alex Portnoy del celebre “Lamento”. Ebreo laico, ambizioso, ribelle rispetto alla gretta comunità del college che lo ospita in Ohio – stato nel quale è fuggito per affrancarsi dalle cure assillanti del padre – Marcus ha molto del giovane Roth. La storia è troppo conosciuta e, per certi versi, datata per correre il rischio di spoilerarla. Non vi disturberà sapere, allora, che a raccontarla è un Marcus non più vivo “L’eternità non è che un perpetuo ricordare la vita terrena.” A pagine 37 l’outing del diciannovenne trapassato, il soldato caduto nella guerra coreana che rivede come in un film senza fine i suoi genitori, i compagni universitari, Olivia, l’amore traviato che ci riporta alla passione di “Goodbye, Columbus”, il primo dei venticinque libri di fiction. Eros e thanatos, i topoi più rappresentativi della letteratura di Roth, in “Indignazione” raggiungono dei picchi altissimi. Solo Michel Houellebecq, tra i viventi, sa raccontare la morte e la lussuria con lo stesso trasporto. “Indignazione” è un romanzo sulla fragilità umana, sul pregiudizio e sul rimpianto. Non starò qui a fare classifiche, Roth va letto tutto.
Minnesota. Edgar Freemantle è un pezzo grosso dell’edilizia. Ha denaro, successo, una bella famiglia. Fino a quando un giorno rischia di morire in un grave incidente sul lavoro. Edgar sopravvive ma perde in parte l’uso della lingua, perde il braccio destro, perde Pam, sua moglie, che nei giorni più difficili della riabilitazione gli chiede il divorzio. È questo l’antefatto di “Duma Key”, romanzo che Stephen King pubblica nel 2008, un anno prima di “The dome” e tre anni prima di “22.11.63”. Edgar cambia vita: lascia l’azienda, parte dal Minnesota e si trasferisce in Florida, su un’isoletta di fronte al golfo del Messico chiamata Duma Key. Edgar può farcela, ma ha bisogno di “siepi contro la notte.” Inizia qui il suo secondo tempo. Il disegno era una delle passioni giovanili mai coltivate fino in fondo. Quel luogo solitario diventa allora lo scenario inconsapevole e sinistro dell’arte ritrovata: Edgar dipinge quadri. Tanti. Soggetti e paesaggi apparentemente banali dietro i quali però si nascondono strani presagi. Poco distante dalla sua casa sull’oceano (Big Pink) vivono una donna anziana molto ricca (Elizabeth) e il suo badante (Wireman). Con Jack, il collaboratore di Edgar, sono gli unici abitanti di Duma Key. Elizabeth è un personaggio carismatico, a metà strada tra Katharine Hepburn e la Rose di “Titanic”. Lo è altrettanto Wireman, ex avvocato scampato miracolosamente al suicidio. Entrambi, come Edgar, sono segnati da un passato tragico che non smette di tormentarli. L’incontro fra i tre fa scoccare una pericolosa scintilla. I dipinti prodigiosi di Edgar dilatano il tempo, trasformano la realtà. Incastri misteriosi si affastellano sulle tele e nei pensieri. Enigmi incomprensibili. Il romanzo è lungo, lunghissimo. 750 pagine non sono troppe se riesci a mantenere alta la tensione, ma King non sempre ci riesce. “Duma Key” è una storia di ricordi e di ferite. È un libro sul potere dell’arte. La bellezza salverà il mondo, diceva un grande autore russo. “L’arte è memoria, Edgar. Non c’è modo più semplice di dirlo. Più è limpida la memoria, migliore è l’arte. Più pura” dice Elizabeth in una delle scene salienti del racconto. I quadri di Edgar come “Il ritratto di Dorian Gray” di Oscar Wilde e il dipinto di “Quanto blu” di Percival Everett sono squarci di verità mutevoli, forse la nemesi o il riscatto del sacro fuoco sul materialismo e la materia dei corpi, che nulla può di fronte alla forza distruttrice dell’arte. Non sarà il miglior King ma di romanzi così se ne scrivono pochi.
Vive a Orlando e insegna alla University of Central Florida. David James Poissant è tra le voci più interessanti della nuova letteratura nordamericana. Da pochi mesi è tornato nelle librerie italiane con “La casa sul lago”, il suo primo romanzo, edito da NNEditore con la traduzione di Gioia Guerzoni. L’ho intervistato per Telegraph Avenue.
Ciao Jamie. Welcome on Telegraph Avenue. Nel 2014 ti sei fatto conoscere e apprezzare con una raccolta di racconti intitolata “The Heaven of Animals” (Il paradiso degli animali). Sedici storie di solitudine, disagio, frustrazione, ambientate nell’America dei nostri tempi. Sei anni dopo sei approdato al tuo primo romanzo. La curiosità e le aspettative dei lettori, anche qui in Italia, erano altissime dopo il successo del primo libro. “La casa sul lago” (Lake Life) direi che non ha tradito queste attese. La prima cosa che vorrei chiederti, intanto, è se stato difficile misurarsi con la forma del romanzo?
Prima di tutto ti ringrazio per le belle parole. È stata una sorpresa sapere che Il paradiso degli animali sia andato cosi bene e abbia avuto una buona riuscita nella traduzione. Non ero certo che gli italiani avrebbero iniziato a leggere i miei racconti, che sembrano “esasperatamente americani” per certi versi, ma notando il tuo amore per Raymond Carver e George Saunders, ho sperato che i miei racconti sarebbero stati accolti anche in Italia e sono molto contento che sia stato così. Per quanto riguarda la differenza tra romanzi e racconti, credo che entrambi i generi presentino delle difficoltà. Per me la parte più complessa dello scrivere un romanzo è conservare tutto nella mia testa. Per quanto riguarda le storie, invece, riesco a scrivere venti o trenta pagine e a ricordare tutt’ora cosa ho scritto nella prima pagina. Ricordo le caratteristiche dei personaggi e le scelte linguistiche che ho adoperato. Evito ripetizioni in questo modo e sono in grado di modellare la storia a mio piacimento; trovare un ritmo che permetta al lettore di addentrarsi nella vicenda con più facilità. Con un romanzo invece si avverte proprio il peso del libro. Arrivato a pag. 200, non riesco a ricordare se ho già rivelato qualcosa che volevo raccontare in seguito o se una nuova idea potrebbe non essere coerente con ciò che ho già spiegato. Devo andare avanti e indietro e rileggere cosa ho scritto e questa sorta di continua caccia all’informazione, oltre a farmi dubitare di me stesso, rallenta il processo di scrittura e fa perdere l’entusiasmo. Le prime bozze sono uno strazio, perché spesso presentano ripetizioni, ciò accade per i luoghi ad esempio, o mancano delle scene importanti. La cosa positiva è che il romanzo, fondamentalmente, è una sola storia. Certo, è un giardino fatto di sentieri che si separano, con molteplici personaggi e ambientazioni ma almeno è un unico progetto. La mia prima raccolta contava 16 racconti con sedici idee distinte, personaggi, inizi, parti nel mezzo e finali. Sedici ambientazioni e sedici vite. Scrivere le storie una ad una è stato più facile ma dall’altro lato raccoglierle tutte ha richiesto più tempo di quanto non me ne sia servito per scrivere La casa sul lago.
Ancora una volta le dinamiche familiari sono al centro delle tue storie. Jamie, la famiglia, che spesso riteniamo superata, che nel corso degli anni è cambiata, si è allargata, emancipata, resta ancora l’osservatorio ideale per conoscere, per sondare una società, una nazione, in questo caso gli States?
Credo di sì. Siamo noi quelli che hanno un rapporto con gli altri, soprattutto con quelli che amiamo. Non so se c’è almeno una cosa come l’identità, oltre ai nostri rapporti con le altre persone, e se quelle identità prendono forma in una famiglia tradizionale o in famiglie per scelta, o magari giusto tra amici e conoscenti. Credo che ogni volta che ci relazioniamo all’altro impariamo qualcosa di noi stessi. Dunque, da scrittore, è così che inizio a conoscere i miei personaggi: li metto in scena assieme ad altri e osservo cosa fanno, come si comportano, come reagiscono. Visto che ho ambientato il romanzo nel 2018, avevo intenzione di raccontare qualcosa a proposito di come era la vita americana, in particolar modo quella del sud, durante la prima metà degli anni tumultuosi, direi, della presidenza di Trump. Non avevo idea di come scrivere della vita americana senza parlare dell’ “Elefante arancione”. Quando la famiglia si riunisce, gli animi si scaldano, soprattutto quando si parla di politica. Gli americani tendono ad aprirsi più facilmente quando sono in famiglia piuttosto che con altri: tra familiari non c’è bisogno di sembrare educati o rispettosi. La scena in cui la famiglia è seduta a cena e litiga per la via della politica è stata una delle mie preferite da scrivere perché quelle conversazioni prendono posto nei milioni di tavoli da cena ogni notte, in ogni angolo del paese.
Il romanzo si apre con una tragedia: la morte per annegamento di un bambino. È un fatto che sconvolge non solo i suoi genitori ma anche i Starling, i protagonisti del libro, che assistono impotenti al suo annegamento. È come se la morte del piccolo aprisse uno squarcio nelle vite di ciascuno dei personaggi e facesse emergere un lato oscuro: mentre il bambino sprofonda nelle acque del lago, ritornano in superficie vecchi rancori, segreti, fantasmi del passato.
Esattamente! Sono contento che tu la veda così, era proprio questo il mio intento. Essere testimoni della morte innesca una serie di traumi ad ognuno dei Starling. Ovviamente il più chiaro è la perdita del bambino di Richard e Lisa ma, come hai detto tu, ognuno dei personaggi nasconde dei segreti o fantasmi del passato che finiscono per riemergere.
La vicenda dei Starling, che si sviluppa in poco più di due giorni, si svolge negli anni del mandato di Donald Trump. Siamo nel Nord Carolina, Stato dove tra l’altro Biden ha perso. In una delle scene più vivaci del romanzo, e tra le più riuscite aggiungo, Michael Starling, che non è proprio un contadino bifolco del Kentucky o un rozzo mandriano del Montana, confessa, nello stupore generale, di essere un elettore di Trump. Dopo quella rivelazione Michael diventa una specie di reietto. Perché?
L’America è sempre stata una nazione divisa. I fratelli si combattevano a vicenda durante la Guerra Civile, i vicini lottavano con gli altri vicini per i diritti civili e le famiglie sono spesso divise da opinioni politiche diverse. Non vedo Michael come un reietto. Tutti continuano a volergli bene: sono soltanto profondamente delusi da lui. Per molti qui votare Trump significa votare a favore del razzismo, sessismo, xenofobia così direi che è tosta per i genitori di Michael, che al contrario sono liberali e progressivi, ignorare il fatto che il figlio adorato sostiene un uomo che incarna tutte queste cose.
Uno dei temi del libro è la resilienza, la capacità di tenere duro per difendere la famiglia dal logoramento del tempo e dalle minacce esterne. Nelle battute finali del libro, Richard Starling, il vecchio Richard, chiede alla moglie Lisa se esiste un segreto per superare le difficoltà dello stare insieme. Lei risponde che esiste un solo modo: andare avanti. Non ce ne sono altri. Il sacrificio e la tolleranza sono gli unici espedienti per garantirsi una convivenza felice?
Non saprei dire se sono l’unica soluzione. Io sono sposato da circa 20 anni e a quanto pare il vero segreto è la comunicazione. L’altruismo è essenziale, a volte, ma se un partner sacrifica tutto, allora nella coppia soltanto una persona sarà felice. Il sacrificio è una virtù, almeno fino a un certo punto, poi inizi ad annientarti per l’altro e di te non resta più nulla. È importantissimo l’equilibrio, quel dare e avere. Lisa è in grado di andare oltre la storiella di Richard perché sono stati sposati per una buona metà della loro vita e sembrerebbe un peccato buttare tutto all’aria per un passo falso. Se fai attenzione alla conversazione finale, Lisa gli chiede come prima cosa se l’altra era una minorenne o una delle sue studentesse. Per Lisa, e tanti altri americani, un “sì” come risposta sarebbe molto più grave di un tradimento: il sesso con minori è uno stupro, mentre fare sesso con i propri studenti, anche se maggiorenni o più grandi, è immorale, è una cattiva condotta sessuale e Lisa non potrebbe passarci su così facilmente. Credo che se Richard avesse commesso entrambe le cose, Lisa avrebbe chiesto il divorzio perché, arrivati a quel punto, Richard le sarebbe parso una persona diversa, con tutta una serie di valori che lei non riconosceva più o non approvava. Non tutto può essere o dovrebbe essere tollerato per il semplice fatto di rimanere sposati per altri 10 o 20 anni.
Leggendo la storia dei Starling – l’ho scritto anche nella recensione – mi sono venute in mente le vicende di un’altra famiglia tipo della narrativa americana: i Lambert de “Le correzioni” (“The corrections”) di Jonathan Franzen. Il libro di Franzen è uscito nel 2001. Come è cambiata da allora la famiglia americana? Cosa hanno di diverso the Starling brothers dai fratelli Lambert?
Bella domanda. Non leggevo “Le correzioni” da più di 15 anni e non l’ho fatto di proposito, avevo paura dell’influenza di questo romanzo sul mio, e così non ricordo molto i rapporti tra questi fratelli. Ma, giusto per chiarire qual è la differenza sostanziale tra questi due romanzi, “Le correzioni” fu scritto quando c’era ancora Clinton al potere. Allora l’America godeva di una solida economia, i siti .com ancora non erano esplosi, così come la bolla immobiliare e dunque l’economia andava a gonfie vele, si respirava un clima di pace. Poi, a dieci giorni dall’uscita di “Le correzioni”, ci fu il disastro dell’11 settembre. È curioso che il libro sia anticipatore, cioè si avverte proprio che a breve scoppierà qualcosa di terribile. Quindi direi che è un libro che preannuncia una bomba in un periodo già “scoppiettante” e pieno di fervore.
Da dove nasce l’idea di questo libro? Avevi già in mente ogni parte della storia, o – alle volte accade – i personaggi poco alla volta hanno cominciato a muoversi da sé, e a condurti dove loro volevano che la storia finisse?
“La casa sul lago” nasce da due idee. Nel 2005 scrissi un racconto intitolato “La geometria della disperazione”. Narra di Lisa e Richard che si vedono strappare via June dalla SIDS, quando ha solo un mese di vita. Due anni dopo scrissi sempre un racconto, “Sveglia il bambino”, sulla nascita di Michael e sulla paura dei Starling di perdere anche lui. Questi due racconti sono contenuti in “Il paradiso degli animali”. Pensavo di aver chiuso con quei personaggi ma questi, come suggerisci anche tu, si sono appropriati della loro vita e hanno iniziato a muoversi attraverso la mia immaginazione. Sapevo che loro avevano molto più da raccontare e iniziai a pensare che la loro storia, forse, avrebbe potuto essere raccontata in un romanzo. Mentre ci pensavo su, nel 2009 o 2010 mi ritrovai spettatore di una tragedia in un lago del Georgia. Fortunatamente la polizia fece in tempo ad arrivare e nessuno si fece male ma, ecco, un bambino sarebbe potuto morire annegato… Non riuscii a liberarmi da quel pensiero e continuai a pensare a cosa avrei fatto se quel ragazzo fosse morto. Per quanto tempo avrei nuotato prima di ritrovare il corpo? Sarei annegato anch’io mentre cercavo di salvargli la vita? Arrivati a quel punto, mi si fecero strada due idee e mi resi conto che questi erano aspetti dello stesso romanzo. Da lì scrissi dieci capitoli in cui la famiglia si riuniva sul lago per trascorrere il fine settimana. Nell’undicesimo capitolo raccontavo dell’annegamento. Solo dopo aver scritto 625 pagine di bozza capii che in realtà il romanzo iniziava proprio da questa triste vicenda e dovevo eliminare i primi dieci capitoli.
C’è nel romanzo un personaggio al quale ti senti più vicino, che ti somiglia più degli altri?
Thad è un mix di me e uno degli amici di infanzia a cui tengo di più. Siamo migliori amici da circa trent’anni e per certi versi conosco meglio lui che me stesso. Abitiamo a diverse ore di distanza ma parliamo a telefono ogni notte, spesso anche per ore. Così molte cose di me e lui sono confluite nel personaggio di Thad. Tra i 10 e i 20 anni volevo anche diventare un poeta – questo prima di volgermi alla narrativa – così considero Thad come uno degli scenari peggiori di me stesso. Se non avessi trovato la motivazione per dedicarmi alla scrittura seriamente o per fare l’insegnante, oggi sarei un Thad che vaga senza scopo e che di tanto in tanto scrive poesie che, in fin dei conti, non sono nemmeno degne di lode. Sì, sarei un Thad malato di amore e indeciso su ciò che fare nella vita. Noi due condividiamo anche l’amore per i fumetti anche se, grazie a Dio, mia madre non me li ha mai buttati via. C’è qualcosa in comune anche con Lisa. Parla dei figli proprio come io parlerei delle mie figlie. L’unica cosa che mi irrita è quando qualcuno mi chiede come faccio a scrivere così bene del bene di una madre. Allora mi domando: in che misura è diverso l’amore che prova un padre verso i figli? Io non ci vedo alcuna differenza. Sicuramente ognuno di noi esprime l’amore a modo suo ma l’idea che l’amore materno sia più intenso di quello paterno è sciocca, obsoleta e direi che dobbiamo proprio liberarcene.
“La casa sul lago” lo hai scritto prima che esplodesse il Covid-19. La pandemia è diventata una specie di spartiacque tra un tempo precedente e uno nuovo che al momento sembra difficile da immaginare, prefigurare. Gli Usa sono stati particolarmente colpiti dal contagio. Pensi che questa sciagura influenzerà la letteratura dei prossimi anni, leggeremo storie apocalittiche di epidemie o di disastri naturali? Nel suo ultimo romanzo (The Silence) Don DeLillo racconta un blackout digitale che somiglia molto ai lockdown che stiamo vivendo.
Non lo so. Dopo l’11 settembre, abbiamo discusso un po’ tutti di quei romanzi che ne parlavano e che avrebbero cambiato la letteratura americana per sempre. Ma, oltre a “L’uomo che cade” di DeLillo, “I figli dell’imperatore” di Claire Messud, “Molto forte, incredibilmente vicino” di Jonathan Safran Foer e “La città invisibile” di Joseph O’Neill non credo ci siano altri romanzi sull’11 settembre significativi come questi, tutti pubblicati tra il 2005 e il 2008. C’è bisogno di molto tempo per scrivere un buon libro e dovremo attendere almeno tre o quattro anni per leggere il primo grande romanzo sulla pandemia. Nel frattempo il nostro paese sarà andato avanti molto probabilmente. Gli americani non hanno una buona memoria, raramente impariamo dai nostri errori… Tra dieci anni dubito che qualcuno vorrà leggere qualcosa sul Covid-19, ci saremo già stancati. I nostri attimi di attenzione sono troppo brevi. Chiarisco, questo è solo ciò che penso io.
Che lettore è Jamie Poissant? Quali sono i tuoi scrittori preferiti? Ti capita di leggere autori italiani?
Amo Italo Calvino e non lo dico solo perché sto parlando con te. “Se una notte di inverno un viaggiatore” è uno dei miei romanzi preferiti e proprio di recente stavo rileggendo “Difficult Loves” (“Gli amori difficili”), la traduzione in inglese di William Weaver, Archibald Colquhoun e Peggy Wright. Per quanto riguarda gli scrittori americani di racconti, direi Raymon Carver, George Saunders, Lydia Millet, Edward P. Jones, Ron Rash, Elizabeth McCracken, ZZ Packer, Amy Hempel, James Baldwin, Rick Bass, Susan Perabo, Ramona Ausubel, Percival Everett, Jason Brown, and A.M. Homes. I miei classici preferiti sono “Il grande Gatsby” di Fitzgerald, “Mrs. Dalloway” e “Gita al faro” della Woolf e “Franny e Zooey” di Salinger, che tra l’altro viene apprezzato in “La casa del lago”. Tra i romanzi e i racconti del ventunesimo secolo includo tra i miei preferiti “Al limite della notte” di Michael Cunningham, “Fight no more” di Lydia Millet, “Last days of California”, “Sembrava una felicità” di Jenny Offill, “The known world” di Edward P. Jones, e molte altre raccolte di storie di George Saunders, Elizabeth McCracken, Ron Rash, and Rick Bass.
In una cittadina del Montana, Delphia, un ragazzo di ventiquattro anni vive da solo in un trailer. Il suo nome è Wendell Newman. Wendell ha perso tutto: il padre, fuggito chissà dove dopo aver ucciso un guardiacaccia; la madre, suicidatasi in macchina con il gas di scarico. La terra che avrebbe potuto essere sua è stata venduta, e quel poco che gli resta oltre il pick-up e la gelida roulotte, sta per finire nelle mani del fisco. Ma per Wendell le soprese non sono finite: un giorno suona alla sua porta un’assistente sociale per affidargli Rowdy, il figlio di sua cugina, ora in galera. Rowdy non parla, ha un ritardo mentale ed è magro come un chiodo. “Nella terra dei lupi” di Joe Wilkins, scrittore dell’Oregon – come Raymond Carver – in Italia più sconosciuto di qualunque altro scrittore sconosciuto – è stato pubblicato negli Usa nel 2019. Il romanzo parte in salita, con un andamento lento, senza sussulti, e con la storia – divisa in paragrafi intitolati con i nomi dei protagonisti – che fatica ad aprirsi a delle svolte decisive. Lo sarà per tutta la prima parte. Il rapporto tra Wendell e Rowdy ne è sicuramente il fulcro, insieme alla fuga di Verl, il padre di Wendell, che è sì invisibile al figlio ma sempre presente nella narrazione attraverso il diario della sua latitanza disperata. Verl è una specie di Rambo inseguito tra le montagne come un branco di lupi. Ed ecco i lupi. Sono loro i migliori attori non protagonisti di questo western 2.0 portato in Italia da Neri Pozza con la traduzione di Norman Gobetti. A Delphia non si parla d’altro che della imminente caccia al lupo, la prima regolamentata in Montana dopo trent’anni. La storia di Wilkins è fluida come la sua scrittura: piana, essenziale, mai una parola di troppo. La cover del libro ne è la migliore rappresentazione grafica. “Nella terra dei lupi” è un romanzo sulla impossibilità di recidere le proprie radici: cosa siamo senza la terra che abbiamo ereditato e senza i nostri padri? È una storia di predestinazione e di incontri salvifici. Violenta, carica di tensione ma nel contempo densa di umanità e di tenerezza. Il ritratto di un’America degradata, ignorante, genuina.