UN PIEDE IN PARADISO – Ron Rash

Anni Cinquanta. In una cittadina sperduta sui monti Appalachi, Oconee, scompare Holland Winchester, giovane reduce della Corea, un piantagrane mezzo matto, la cui proprietà confina con quella dei coniugi Holcombe. Amy e Billy vivono da soli nella loro casa di campagna, con un figlio che tarda ad arrivare. Come mai? La diagnosi del dottor Wilkins è una condanna senz’appello: Billy è sterile. La soluzione, l’unica possibile, forse è a portata di mano, proprio su quel confine, che tragicamente diventa lo spartiacque tra il bene e il male, il lecito e l’immorale. Dov’è finito Holland? Lo sceriffo Alexander – una delle cinque voci narranti di questa storia, insieme a quelle di Billy, Amy, del figlio della coppia e del vicesceriffo – sa, ma non ha le prove. “Un piede in paradiso” uscì negli Stati Uniti nel 2002; per arrivare in Italia ha percorso un lungo giro durato vent’anni: diversi editori si erano rifiutati di pubblicare il libro prima che La Nuova Frontiera – evviva – si sia decisa a farlo, affidando la traduzione all’esperto Tommaso Pincio. Quanto al suo autore, di Ron Rash possiamo dire che è il più grande scrittore americano che gli italiani non conoscono. Nativo di Chester, South Carolina, Rash si colloca nella scia della gloriosa tradizione letteraria del Sud, quella di Faulkner, Eudora Welty, Flannery O’Connor, Harper Lee, Richard Ford. Il suo minimalismo graffiante – frasi brevi e toni drammatici – è l’impasto ideale per storie noir e di provincia come questa, a metà strada tra “Crum” di Lee Maynard e “Cape Fear” di John MacDonald. La vicenda di Holland, la magnifica polifonia del racconto soprattutto, con lo sguardo di ogni protagonista sulla storia, trascinano il lettore, come in un prodigioso effetto stereo, nella reale dimensione dei fatti, nel fango, le sterpaglie, le intemperie dei luoghi. “Un piede in paradiso” è un romanzo su una paternità usurpata, negata, e sulla terra: seminata, espropriata, la terra che inghiotte ogni cosa, cancellando la vita, i ricordi, le prove, il disonore.   

Angelo Cennamo

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