NELLA TANA DEL SERPENTE – Michele Navarra

“Una stecca lunga un chilometro per nove piani di altezza, milleduecento appartamenti, ottomilacinquecento stanze in grado di ospitare seimila persone e più di settecentomila metri cubi di volume” il Serpentone, lo chiamano così questo palazzo-quartiere di una periferia sgangherata di Roma: Corviale. È un crocevia di razze, etnie, mille storie diverse, soprattutto un luogo abbandonato, degradato e di difficili convivenze. Tra questi blocchi di cemento, che soffocano perfino la speranza, si consuma il delitto efferato di un giovane siriano (Nadir Bayazid). È un caso semplice: più volte Nadir era stato il bersaglio di un commerciante della zona, i cui affari avevano iniziato a girare male proprio per colpa (?) di gente come lui. Nel romanzo, Elia Desideri, questo il nome del commerciante, ha il ruolo dell’italiano esasperato ed impoverito da un’immigrazione clandestina e mal gestita che ha finito per contrapporre, senza filtri, i nuovi ultimi a quelli di prima. “Nella tana del serpente” è il secondo capitolo di una serie di legal thriller che ha come protagonista un brillante avvocato romano: Alessandro Gordiani. Gordiani è penalista come il suo inventore – Michele Navarra – è sposato con Chiara – segretaria dello studio legale – ma ha un debole per Patrizia Mori, vecchia fiamma e collega “di scrivania”. Quando se ne va in giro per Roma su una vespa bianca scassata, è  difficile non vedere su quella vespa il Nanni Moretti di “Caro Diario”. Non è un supereroe, Gordiani, anzi. La sua normalità – in Italia si contano almeno 250.000 “Gordiani” – le debolezze, i conflitti interiori, i dubbi sul matrimonio, ce lo rendono molto umano. Navarra gioca su due tavoli: il professionista capace si alterna al marito annoiato. Il resto lo fa Roma, quella bene e quella di Corviale – miseria e nobilità – la sua toponomastica, i colori, lo slang dialettale. Sì, ma chi ha ucciso Nadir? Che vi importa.   

Angelo Cennamo

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L’INVENZIONE DEL SUONO – Chuck Palahniuk

Certi romanzi si muovono su un crinale sottilissimo: basta un niente per farli cadere nella più totale inconsistenza, oppure deviarli sullo scaffale delle grandi opere. “L’invenzione del suono” segna l’attesissimo ritorno alla narrativa di Chuck Palahniuk, si legge in alto sulla copertina del libro, al centro della quale campeggia l’immagine di un volto pietrificato che lancia un urlo in perfetto stile Munch. Il nome di Palahniuk, scrittore originario di Pasco (Washington), ma trapiantato nell’Oregon, terra di minimalisti illustri – lui compreso – è legato a uno degli esordi più clamorosi della letteratura americana degli ultimi trent’anni: “Fight Flub”, romanzo cult uscito nel 1996 (l’anno di Infinte jest di Wallace). Con “L’invenzione del suono” Palahniuk ritorna ai fasti di una verve creativa che negli ultimi tempi era sembrata appannata e con pochi sussulti. Il romanzo è una gigantesca parodia e/o paranoia sulla mercificazione del dolore e sul potere dell’arte. I protagonisti sono un padre disperato per la scomparsa della figlia, avvenuta diciassette anni prima, e una nota rumorista che ha imparato a riprodurre con delle strane tecniche ereditate dal padre, suoni legati a gesti estremi.Il mio lavoro dice Mitzi Ives (questo è il nome del personaggio femminile) “consiste nel far gridare tutti nello stesso preciso istante” – il romanzo si apre con un branco di cani che ululano al passaggio di un’ambulanza. Uccidere altre donne per lei non è solo un modo agghiacciante per selezionare e rimpinguare il suo già enorme data base di nuovi suoni, ma anche una specie di conquista, un fatto politico: l’omicidio diventa il vero metro del progresso delle donne. Mitzi agisce sotto l’effetto di un farmaco chiamato Ambien, che serve a cancellare la memoria nel breve periodo: gli americani costruiscono il proprio successo sulla rimozione del passato, ricordate la lezione di Stephen King in “It”? Gates Foster (il personaggio maschile) non accetta la morte della figlia; la cerca esplorando il dark web, arriva addirittura a pagare una ragazza che le somiglia per mettere in scena una verità impossibile – il confine tra vero e falso è un’altra traccia del libro. Il mestiere che Gates Foster sogna è torturare gli uomini che torturano i bambini.Nel suo archivio, Mitzi classifica gli urli delle sue vittime come dipinti “Urlo straziante di un uomo che precipita nel vuoto…L’urlo di uomo azzannato da un alligatore”. Ma l’urlo a lei più caro è quello di sua madre, registrato dal padre su un vecchio nastro con su scritto “Traditrice sommariamente giustiziata con un punteruolo arrugginito”. Non è il dolore a produrre i risultati migliori: le registrazioni più redditizie sono collegate al suono del terrore. Palahniuk gioca d’azzardo, la sua trama è a tratti oscura, criptica, labirintica, si legge sopra le righe, tra le righe: Palahniuk lo ami o lo detesti, non ci sono mezze misure. Nel caso trovaste i suoi romanzi respingenti, non mollateli, andate fino in fondo: se non altro, migliorerete il vostro modo di scrivere, e imparerete a leggere meglio. Le storie di Mitzi e di Gates scorrono su paragrafi alternati. I due si incontreranno nella seconda parte del romanzo, quando tutto si svelerà e si ricomporrà in una verità che non distinguerete dalla finzione. Geniale e un po’ folle, il solito grande Palahniuk.

Angelo Cennamo

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DESERTO D’ASFALTO – S.A. Cosby

“Beauregard aveva una moglie e dei figli. Gestiva un’attività e andava alle recite scolastiche. Bug rapinava banche e auto blindate…Ho cercato di tenere separate queste due persone ma un uomo non può essere due tipi di bestie”. 
Red Hill è una cittadina sperduta della Virginia. Qui tutti conoscono Beauregard Montage per le sue doti di pilota e per come riesce a riparare i motori delle auto. Beauregard è un brav’uomo, un onesto lavoratore, un buon padre di famiglia. Le cose però non girano più per il verso giusto: la concorrenza, le spese che aumentano. Beauregard ha bisogno di soldi e ha poco tempo per guadagnarseli onestamente. Gli serve un piano. La soluzione è da qualche parte, vicina, nei paraggi di un passato balordo che credeva sepolto per sempre. Beauregard deve solo guardarsi dentro e ricordare un altro tempo. “Vendi la Duster”, gli ripete la moglie Kia. La Duster non si tocca, la Duster è più di una macchina, la Duster è tutto quello che gli resta di suo padre: la Duster è suo padre. Anthony Montage non lo vedrete mai comparire sulla scena, ma è lui l’altro protagonista di questa storia; la sua assenza assordante riempie il romanzo dall’inizio alla fine. Il fantasma si muove tra le parole, i ricordi, le immagini di una vita di stenti ma a suo modo felice. Beauregard lo ha visto andare via quando era ancora un bambino. Da allora Anthony non è più tornato, ma i ricordi sono macigni e il vuoto può diventare ossessione, a volte un luogo dove rifugiarsi nei momenti più terribili. “O rottami auto o le usi per scappare” diceva il vecchio Ant prima di fuggire chissà dove. “Un uomo non può essere due tipi di bestie”. Beauregard ora è davanti a un bivio, da un lato il presente, dall’altro la vecchia strada: il crimine. “Deserto d’asfalto” è il quarto romanzo di S.A. Cosby, giovane talento della Virginia scoperto e tradotto per noi italiani da Nicola Manuppelli, anima yankee di Nutrimenti e impagabile talent scout di scrittori americani (Don Robertson è il primo nome sulla lista). Il romanzo, uscito negli Usa nel 2020, ha vinto diversi premi ed è stato giudicato da buona parte della stampa specializzata come il thriller dell’anno. “Una bomba” aveva scritto Manuppelli sui social annunciandone l’uscita imminente in Italia. Aveva ragione. Cosby ha scritto un libro ben congegnato con personaggi veri, indimenticabili. Il rapporto tra Beauregard e il padre scomparso è certamente il fulcro della storia “Avresti potuto essere migliore di quello che sei, ma hai passato troppo tempo ad ammirare un fantasma”. La tentazione del male e l’impossibilità di sfuggire al proprio destino, gli altri due temi al centro del racconto, potente, adrenalinico, e senza cali di tensione. Come tanti scrittori di strada – avulsi, direbbe Carlo Verdone, dalle solite conventicole, giri accademici, e incontaminati da inutili – talvolta dannose – scuole di scrittura – Cosby è arrivato alla letteratura dopo aver fatto mille mestieri: il buttafuori, il montatore di palchi, l’agente delle pompe funebri. La purezza di Cosby è un valore aggiunto. Teniamolo d’occhio.

Angelo Cennamo

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Il premio Pulitzer per la Fiction 2021 se lo è aggiudicato Karen Louise Erdrich, scrittrice e poetessa del Minnesota, con “The Night Watchman”, romanzo uscito negli Usa nel 2020 ma non ancora pubblicato in Italia. La Erdrich l’abbiamo conosciuta soprattutto grazie a due romanzi precedenti, entrambi editi da Feltrinelli: “La casa tonda” del 2012, vincitore del National Book Award, e “LaRose”, uscito quattro anni dopo. I personaggi delle sue opere sono in prevalenza nativi americani. Nel 2009, un altro suo libro “Il giorno dei colombi”, sempre edito da Feltrinelli, era già stato finalista al Premio Pulitzer per la narrativa e aveva ricevuto un Anisfield-Wolf Book Award. La Erdrich, tra le autrici più apprezzate da Philip Roth, è anche proprietaria della Birchbark Books, una piccola libreria indipendente di Minneapolis che si occupa fondamentalmente di letteratura dei nativi americani e della comunità dei nativi nelle Twin Cities.

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UN OTTIMISTA IN AMERICA – Italo Calvino

“In America nessuno ha scelto un luogo piuttosto d’un altro: ci si capita per caso e subito lo si fa proprio.”

Venticinque anni prima di “Lezioni americane”, il libro basato su una serie di lezioni preparate in vista di un ciclo di sei discorsi da tenere all’università di Harvard per l’anno accademico 1985-1986 (la morte lo colse prima di arrivarci), Italo Calvino fece il suo primo viaggio negli Usa “Partendo per gli Stati Uniti, e anche durante il viaggio, spergiuravo che non avrei scritto un libro sull’America (ce n’è già tanti!). Invece ora ho cambiato idea. I libri di viaggio sono un modo utile, modesto eppure completo di fare letteratura.” Il libro in verità non fu mai pubblicato perché, rileggendo le bozze, l’autore  giudicò il materiale raccolto “troppo modesto” per farne un’opera letteraria e “non abbastanza originale” come reportage giornalistico – avesse potuto vedere cosa si spaccia oggi per letteratura, l’umile scrittore avrebbe cambiato idea senza nessuna remora. Calvino gli States li girò in lungo e in largo per sei mesi, tra il 1959 e il 1960, incontrando uomini d’affari, politici, letterati, ma anche tanta gente comune. Soprattutto New York…”perché io New York la amo.” Per definire la Grande Mela Calvino ne coglie subito il senso, l’immagine basica, la sensazione più intima “prima di tutto New York è  un ritmo…una città elettrica, impregnata di elettricità.” Gli spazi, enormi, i grattacieli, ovvio, ma anche le auto “tutte lunghe, lunghissime, talora assurdamente lunghe e larghe.”

Eppure Calvino sembra ambientarsi presto, non è il marziano a Roma di Flaiano, ma un giovane uomo curioso, un attento osservatore che non giudica. Il sogno, il pragmatismo, la ricchezza, e le diseguaglianze, talvolta feroci: la descrizione del fenomeno di chi sceglie di vivere nei camper per poi muoversi alla ricerca di lavori stagionali è una “Nomadland” di altri tempi.”

“Comincio a capirla, Chicago. Forse comincia a farmi paura. Insomma, comincia a piacermi. È la vera città americana, produttiva, materiale, brutale, tough” ( e di lì a poco ci sarebbe nato anche il primo presidente di colore, “negro” avrebbe scritto Calvino, rischiando la ghigliottina della futura Cancel Culture).
La West Coast è un’altra storia. Il Pacifico è un mare infido, diverso, poco familiare, e Los Angeles, più che una metropoli, sembra un’accozzaglia di quartieri troppo diversi tra loro. “Capisco che dovrei scrivere qualcosa su Hollywood, ma non ho nulla da raccontare.” Dell’altra America, quella povera del New Mexico, con i suoi deserti e le riserve di indiani, di quella sì. O del profondo Sud, dalla Georgia all’Alabama dove “le case dei negri sono tuguri di legno” e la sola speranza di riscatto si chiama Martin Luther King. È un tempo di vigilia: King, Kennedy, la luna e tutto il resto. Il reportage di Calvino è preciso, dettagliato, colto, affettuoso, un On the road senza filtri o allucinazioni, lucido e generoso. Calvino ha amato l’America, noi amiamo lui: il romanziere, l’intellettuale, il viaggiatore.

Angelo Cennamo

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