LE COLLINE DELLA MORTE – Chris Offutt

“Ti servono gomme nuove, benzina o una Bibbia? Sono tutte cose che ti portano dove devi andare”. 
Se vi capitasse di partire per il Kentucky ricordatevi di mettere in valigia dei libri di Chris Offutt, vi saranno utili. 

Ad un anno esatto da “Il fratello buono”, romanzo uscito la prima volta negli Usa nel 1997, Offutt torna in libreria con “Le colline della morte”, edito come sempre da Minimum fax con la traduzione di Roberto Serrai. È un noir veloce con due tracce ben assestate: un’indagine su un omicidio, e il tradimento – sessuale, personale, tra clan.

Mick Hardin ha combattuto in Afghanistan, Siria, Iraq, oggi è un investigatore dell’esercito. Sua moglie, Peggy, aspetta un figlio da un altro uomo. 
Mick ha due questioni da risolvere: capire cosa ne sarà del suo matrimonio – lasciare Peggy? Perdonarla e fare da padre a un figlio non suo?; aiutare la sorella Linda, appena nominata sceriffo, a risolvere un delicato caso di omicidio.

Mick è sconvolto, se n’è andato a vivere in una capanna nei boschi come un altro uomo tradito della letteratura americana: Moses Herzog. Ma se il personaggio di Saul Bellow trova presto ristoro tra le braccia della focosa Ramona, il Mick di Offutt non ha tempo per trastullarsi con altre donne, in più rischia l’arresto per essersi allontanato dal suo dipartimento senza permesso. 

Il Mick investigatore è un osso duro, l’esperienza sui campi di guerra lo ha temprato contro ogni evenienza “Mick indagava come suo nonno viveva il bosco”, ma l’amore e la fedeltà coniugale sono un’altra cosa. Mick, Linda e Peggy, che compare solo nella seconda parte del romanzo, sono personaggi perfettamente riusciti, riusciti anche i dialoghi del libro, da sempre uno dei punti di forza dell’autore. Il resto lo fanno i luoghi. L’America di Offutt è un paese di boschi, strade sterrate, pick-up, Bibbie, bandiere, scoiattoli, orsi, serpenti velenosi, muli, uomini semplici ma vendicativi. Puoi togliere Offutt dal Kentucky ma non puoi togliere il Kentucky da Offutt.

Angelo Cennamo

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L’UOMO SENZA SONNO – Antonio Lanzetta

Esiste un tempo in cui le ombre del maligno si rincorrono in un gioco sottile e perverso di atrocità. Esistono luoghi diversi e uguali dove nascono storie che non puoi fare a meno di raccontare perché ogni uomo è uno scrigno di paure inconfessabili.  

A due anni da “Le colpe della notte” Antonio Lanzetta torna in libreria con un thriller inusuale e smarginato che coniuga l’horror e il gotico americano con il neorealismo italiano del Novecento. Nel villaggio globale del racconto il Cilento di Lanzetta non è diverso dal Kentucky di Offutt o dal Maine di Elizabeth Strout. 

“L’uomo senza sonno” è uno spettro di false convinzioni e di sospetti mai fugati in cui il reale e l’immaginifico si confondono. 

Bruno ha tredici anni e vive in un orfanotrofio, nel salernitano. Vorrebbe fuggire da quel luogo di soprusi e di continue violenze ma non saprebbe dove andare. L’arrivo dell’estate è una liberazione: lui e il suo amico Nino vengono presi a lavorare nella tenuta di una famiglia cilentana molto in vista: gli Aloia. È qui che la storia decolla in una spirale di misfatti che non sembrano avere una spiegazione plausibile. Vicino alla casa degli Aloia vengono ritrovati dei cadaveri in evidente stato di decomposizione. Cosa si nasconde dietro quella macabra scoperta? Lanzetta dice e non dice, semina sulla scena una serie di oggetti inquietanti: statue di legno, vecchie foto e un libro che è arrivato in casa Aloia da un passato lontanissimo. Distinguere il bene dal male è quasi impossibile: ogni personaggio rivela poco di sé, lasciando il lettore nel dubbio fino agli ultimi capitoli. Pia, Caterina, Gennaro, l’uomo col cappello – ricordate il Randall Flagg di Stephen king? – si muovono su un terreno minato dai ricordi e dalla sete di vendetta. Una furia misteriosa sta per abbattersi sul presente. Preparatevi al peggio. 

Angelo Cennamo

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DI CHI È LA COLPA – Alessandro Piperno

“Solo chi è nato in una zona sismica o alle falde di un vulcano attivo può farsi un’idea relativamente adeguata di cosa significa venire al mondo in una famiglia indebitata fino al collo”. 

A parlare è un ragazzino senza nome, figlio unico di una famiglia romana piccolo borghese, disfunzionale, litigiosa, che non ama avere gente in casa né accettare inviti altrui. La madre è un’insegnante di matematica, il padre un piazzista di elettrodomestici, professionalmente inetto e smisuratamente ottimista, capro espiatorio di un collasso finanziario che mina qualunque ipotesi di sopravvivenza. 

A cinque anni dal suo ultimo romanzo, Alessandro Piperno torna nel luogo a lui più congeniale, la famiglia, per raccontarci una storia di menzogne, di colpe e di imposture. Una storia lunga quanto la sua vita: inizia negli anni Settanta e prosegue fino a nostri giorni. 
Di questo nucleo familiare autarchico e male assortito sappiamo poco, è una famiglia reticente, che sembra avere rotto i ponti con chiunque. Fino a che quel passato tenuto nascosto non irrompe con una una brutalità non prevista e foriera delle “peggiori intenzioni”. Più o meno a metà del racconto scopriamo che la madre del ragazzino senza nome è ebrea e proviene da una famiglia dell’aristocrazia romana molto in vista. Ma il riavvicinamento insperato, anziché risollevare le sorti finanziarie degli indebitati, li farà sprofondare in una spirale tragica e paradossale.

Siamo alla prima traccia di questa Pastorale Italiana: l’identità. L’incontro del ragazzino con un cugino di sua madre segna un nuovo inizio. 

Gianni Sacerdoti è uno dei personaggi chiave della storia. Giurista di chiara fama, scapolo impenitente e amante della bella vita, Sacerdoti appartiene a quella schiera di ebrei secolarizzati nati dopo la guerra, per i quali il giudaismo “non era una cosa seria” ma “una coccarda da ostentare in società, un brand”. Sacerdoti seduce il ragazzino, lo introduce nel ramo ricco e blasonato della famiglia. L’iniziazione è graduale e non contempla ripensamenti. Cosa vuol dire essere ebrei nella Roma secolarizzata dell’ultimo scorcio del Novecento. E cosa vuol dire essere scrittori ebrei in un tempo che confligge con qualunque forma di ortodossia. È un tema ricorrente nella letteratura ebraica americana soprattutto, dalle opere di Isaac Bashevis Singer a quelle più  recenti di Jonathan Safran Foer. È raro imbattersi in un autore ebreo che si sottragga ad una simile vocazione, quella cioè di esplicitare il dilemma etico in questione. Non fa eccezione Alessandro Piperno, “l’uomo in bilico” tra Philip Roth e Saul Bellow per stile ma anche per molti degli argomenti affrontati nelle storie che lui racconta: la ferocia e il cinismo della vita borghese, lo strabismo religioso di certi personaggi incapaci di allinearsi ai precetti della torah. 
Il dualismo nel quale il giovane protagonista si ritroverà calato a seguito del dramma che colpirà i suoi genitori, dà il senso e la misura di questo richiamo. 
Cosa è accaduto al padre e alla madre del ragazzo senza nome? Chi è il colpevole dei fatti? Gianni Sacerdoti avrà l’autorevolezza, il potere, l’arroganza di imprimere agli eventi la direzione sbagliata. Ne seguirà una spirale di false convinzioni della quale il nipote ritrovato sarà sia vittima che carnefice. 
L’altra traccia del libro è l’impostura, ovvero il desiderio di essere qualcun altro. L’impostore vuole migliorarsi, è “l’immaginifico che rischia il tutto per tutto inventando passati implausubili e scommettendo su un avvenire di riscatti”. L’impostura è l’illusione, la gabbia dorata nella quale finirà per autorecludersi il giovane Sacerdoti, lo stravolgimento comprenderà anche il cambio del cognome. Ma verrà un tempo per ristabilire la verità, a caro prezzo, e risarcire i danni, nei limiti del possibile. Siamo alle battute finali, le pagine più introspettive e surreali di questo meraviglioso romanzo intitolato “Di chi è la colpa”. 

Angelo Cennamo

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L’11 SETTEMBRE VISTO DAL MIDWEST

Nell’ottobre del 2001 la rivista Rolling Stone pubblica un saggio di David Foster Wallace – nella versione italiana “La vista da casa della Sig.ra Thompson” contenuto nella raccolta “Considera l’aragosta” (Einaudi) – nel quale lo scrittore ripercorre le ore immediate all’11 Settembre nella cittadina di Bloomington, Illinois. A distanza di vent’anni da quelle giornate terribili, il racconto è ambientato tra l’11 e il 13 settembre, Telegraph Avenue pubblica un brano di quel reportage molto  dettagliato e toccante:  


《Martedì. Ci sono forse dieci giorni l’anno in cui qui il tempo è splendido, e oggi è uno di quelli. È limpido, la temperatura è giusta, l’aria è meravigliosamente asciutta dopo parecchie settimane di fila in cui sembrava di vivere sotto l’ascella di qualcuno. Manca pochissimo al vero e proprio inizio del raccolto, e il polline è al suo massimo splendore; una buona percentuale della città è strafatta di Benadryl, un medicinale che come probabilmente sapete tende a dare alle prime ore del mattino un che di trasognato e subacqueo. Quanto all’orologio, siamo un’ora indietro rispetto alla East Coast. Alle 8, chiunque abbia un lavoro è già al lavoro, e più o meno tutti gli altri sono a casa che bevono il caffè o si soffiano il naso o guardano “Today” o uno degli altri programmi del mattino che vanno in onda (manco a dirlo) da New York. Personalmente, io alle 8 ero sotto la doccia che cercavo di ascoltare un’autopsia dei Bears sulla Wscr, una radio sportiva di Chicago. La mia parrocchia si trova nella zona meridionale di Bloomington, vicino a dove abito. La maggior parte delle persone che conosco abbastanza bene da chiedergli se posso andare da loro a guardare la tv sono membri della mia parrocchia. Non è una di quelle parrocchie protestanti in cui la gente non fa che sproloquiare su Gesù o parlare della Fine dei Tempi, voglio dire che non è una comunità di fanatici o di sempliciotti, è abbastanza seria, e i membri della comunità finiscono per conoscersi bene e stringere salde amicizie. Per la maggior parte sono colletti blu o pensionati; c’è anche chi ha un piccolo negozio. Parecchi sono veterani o hanno figli arruolati nell’esercito o che, per lo più, fanno i riservisti da qualche parte, dato che per molte di queste famiglie quello è l’unico modo per pagarsi il college. La casa in cui finisco per mettermi a sedere con scaglie di shampoo secco nei capelli a guardare buona parte del vero e proprio Orrore nel suo svolgersi appartiene alla signora Thompson (4), che è una delle settantaquattrenni più in gamba del mondo ed è esattamente il tipo di persona che in caso di emergenza anche se trovi il telefono occupato sai che puoi semplicemente andare lì da lei.
La sua casa è a un paio di chilometri di distanza, di fronte a un parcheggio per caravan. Le strade non sono affollate ma neanche deserte come diventeranno più tardi. Quella della signora Thompson è una casetta immacolata a un solo piano che sulla West Coast chiamerebbero bungalow ma che nella zona meridionale di Bloomington chiamano semplicemente casa. La signora Thompson è un membro di lunga data della parrocchia e una delle figure di spicco della comunità, e il suo soggiorno tende a essere una sorta di punto d’incontro. È anche la mamma di uno dei miei migliori amici di Bloomington, F***, che ha combattuto nelle truppe d’assalto in Vietnam, è stato ferito al ginocchio e adesso lavora senza entusiasmo per una impresa edile che allestisce negozi in franchising della Victoria’s Secret nei centri commerciali. È nel bel mezzo di un divorzio (è una lunga storia) e vive con la signora T. mentre il tribunale decide a chi assegnare la sua casa. F*** è uno di quei veri veterani del fronte che non parla della guerra e non fa nemmeno parte dell’Associazione Veterani, ma a volte si incupisce in maniera molto profonda e il weekend del Giorno dei Caduti va sempre a campeggiare per conto suo senza dire niente a nessuno, e si capisce che si porta dentro la testa roba bella pesante. Come quasi tutti gli operai edili deve arrivare sul posto di lavoro molto presto, ed era già uscito da un pezzo quando sono arrivato a casa della madre, cioè subito dopo che il secondo aereo ha colpito la Torre Sud, quindi probabilmente alle 8.10 o giù di lì. A ripensarci, il primo segno di shock è stato il fatto che non ho suonato il campanello ma sono entrato direttamente, cosa che normalmente uno non farebbe mai. Grazie a certe conoscenze di suo figlio nell’ambiente, la signora T. ha un televisore Philips da 42 pollici a schermo piatto, su cui appare per un secondo Dan Rather in maniche di camicia con i capelli leggermente arruffati. (Sembra che la stragrande maggioranza degli abitanti di Bloomington preferisca i telegiornali della Cbs; il perché non mi è chiaro). Un buon numero di altre signore della parrocchia sono già qui, ma non so se ho salutato qualcuno perché mi ricordo che quando sono entrato tutti stavano fissando, paralizzati dall’orrore, uno dei pochi spezzoni di filmato che poi la Cbs non ha più ritrasmesso, cioè una ripresa da lontano, in grandangolo, della Torre Nord e della griglia d’acciaio sventrata dei suoi piani più alti in fiamme, e di certi puntini che si staccavano dal palazzo e scendevano lungo lo schermo in mezzo al fumo, che poi quella tipica zoomata a scatti rivelava essere uomini e donne veri, con indosso cappotti e cravatte e gonne, e scarpe che gli cadevano dai piedi mentre loro cadevano, alcuni che si aggrappavano da cornicioni o travi e poi si lasciavano andare, ribaltandosi o contorcendosi mentre cadevano, e una coppia che sembrava quasi (impossibile da verificare) abbracciarsi mentre veniva giù per tutti quei piani e si riduceva di nuovo a un paio di puntini quando la telecamera all’improvviso tornava al campo lungo — non ho idea di quanto durasse il filmato — dopodiché mi è sembrato che la bocca di Rather si muovesse per un attimo prima che ne uscisse un qualche suono, e tutte le persone nella stanza si sono appoggiate allo schienale delle poltrone e si sono guardate con espressioni che sembravano al tempo stesso infantili e orribilmente vecchie. Mi pare che una o due persone abbiano emesso qualche suono. Non è chiaro cos’altro c’è da dire. Sembra grottesco raccontare di essere rimasti traumatizzati da un filmato quando le persone dentro il filmato stavano morendo. C’era qualcosa, in quelle scarpe che cadevano giù pure loro, che rendeva il tutto anche peggiore. Penso che le signore più anziane l’abbiano presa meglio di me. Poi la tremenda bellezza del replay del filmato del secondo aereo che colpisce la torre, con il blu, l’argento, il nero e quello spettacolare arancione, mentre altri puntini mobili cadevano giù. La signora Thompson era sulla sua sedia, una sedia a dondolo con i cuscini a fiori. Nel soggiorno ci sono altre due sedie e un enorme divano di velluto che io e F*** abbiamo dovuto staccare la porta dai cardini per far entrare in casa. Tutti i posti a sedere erano occupati, il che significa che c’erano altre cinque o sei persone, per lo più donne, tutte oltre i cinquanta, e poi altre voci in cucina, una delle quali era molto sconvolta e apparteneva alla signora R***, psichicamente labile, che io non conosco molto bene ma si dice sia stata un tempo una bellezza di fama locale. Molte di queste persone sono vicini della signora T., alcuni ancora in vestaglia, e in diversi momenti qualcuno esce per tornare a casa e fare una telefonata e poi torna, o se ne va e basta (una signora più giovane è andata a portare via i bambini da scuola), altri arrivano. A un certo punto, più o meno mentre la Torre Sud stava crollando all’apparenza così perfettamente su se stessa — mi ricordo di aver pensato che stava cadendo un po’ con il movimento di una signora elegante che sviene, ma è stato Duane, il figlio della signora Bracero, un tipo di norma fondamentalmente inutile e fastidioso, a notare che quello a cui assomigliava davvero era se uno prendeva la ripresa di un decollo della Nasa e la faceva scorrere all’indietro, che adesso dopo aver rivisto la scena molte volte sembra effettivamente un paragone perfetto — c’erano almeno dieci persone in casa. In soggiorno non c’era molta luce perché d’estate tutti tengono le tende tirate (5). È normale non ricordarsi molto bene le cose, o comunque l’ordine delle cose, dopo soltanto un paio di giorni? So che a un certo punto, per un po’, si è sentito il rumore di qualcuno che falciava il prato, cosa che sembrava completamente assurda, ma non mi ricordo se qualcuno ha detto qualcosa. A tratti sembra che nessuno parli e a tratti sembra che parlino tutti insieme. C’è anche un sacco di attività telefonica. Nessuna di queste signore ha un cellulare (Duane ha un cercapersone, a che gli serva non è ben chiaro), quindi c’è solo il vecchio apparecchio della signora T. montato sulla parete della cucina. Non tutte le telefonate hanno un senso razionale. Sembra che un effetto collaterale dell’Orrore sia un irresistibile desiderio di chiamare tutte le persone a cui si vuole bene. Fin dal primo momento è stato appurato che era impossibile prendere la linea con New York; il prefisso 212 produce solo un bizzarro suono stridulo. La gente continua a chiedere il permesso alla signora T. finché lei non gli dice di piantarla e per amor del cielo usare il telefono punto e basta. Alcune signore contattano i mariti, che a quanto pare sono tutti radunati intorno a una tv o a una radio sui loro posti di lavoro; per un po’ i capi sono troppo sconvolti per pensare di mandare la gente a casa. La signora T. ha messo a fare il caffè, ma un altro indice della Crisi è che se uno ne vuole deve andarselo a prendere — in genere invece il caffè praticamente salta fuori dal nulla. Dalla porta della cucina mi ricordo di aver visto cadere la seconda torre e di non aver capito bene se era un replay del crollo della prima. Un’altra conseguenza della febbre da fieno è che non si può mai essere totalmente sicuri se una persona sta piangendo o meno, ma durante le due ore di Orrore in diretta, con servizi extra sull’aereo caduto in Pennsylvania e su Bush scortato in fretta e furia in un bunker segreto dell’Aeronautica e un’autobomba esplosa a Chicago (quest’ultima notizia poi smentita), praticamente tutti piangiamo o non piangiamo a seconda delle nostre capacità in tal senso. La signora Thompson parla quasi meno di tutti. Non mi pare che pianga, ma non si dondola sulla sedia come suo solito. La morte del primo marito è stata improvvisa e orribile, e so che a volte durante la guerra F*** era sul campo e lei non ne aveva notizie per settimane di fila e non aveva neppure idea se fosse vivo o morto. Il principale contributo di Duane Bracero è di continuare a ripetere quanto sembra un film. Duane, che ha almeno venticinque anni ma vive ancora coi suoi mentre a quanto dice studia per diventare saldatore, è uno di quelli che portano sempre magliette mimetiche e anfibi da paracadutista ma che non si sognerebbero neanche lontanamente di arruolarsi per davvero (come, per essere onesti, non me lo sognerei io). E non si è nemmeno tolto il berretto entrando in casa della signora Thompson. È sempre importante avere almeno una persona da odiare》.

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VINCE PASTORALE AMERICANA

Sedici libri di ogni genere (Furore, Il mondo secondo Garp, Il grande Gatsby, Amatissima, Il giovane Holden, Pastorale Americana, Il buio oltre la siepe, Revolutionary road, Le correzioni, Infinite jest, It, American tabloid, Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay, Le avventure di Augie March, le quadrilogie di John Updike e di Richard Ford). Underworld di DeLillo, il mio “Grande Romanzo del Cuore”, non so perché ho voluto tenerlo fuori dal sondaggio – il sondaggio è stato lanciato ieri su Twitter.

Al termine delle 24 ore consentite dalla piattaforma per esprimere il voto su quella che era risultata la griglia finale (Furore, Il grande Gatsby, Il giovane Holden e Pastorale Americana) l’ha spuntata il capolavoro di Philip Roth. Di misura, va detto – appena cinque punti di differenza – su Furore di John Steinbeck. Staccati al terzo e quarto posto: Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald e Il giovane Holden di Salinger. 

Il risultato non sorprende più di tanto, anche perché, al di là del valore oggettivo del romanzo e del suo magnifico autore, negli ultimi anni Pastorale ha goduto di una maggiore popolarità/visibilità rispetto agli altri finalisti, almeno sui social. Complice Telegraph Avenue? Può darsi. Ad ogni modo, come ho già spiegato ai lettori e amici di Twitter che hanno partecipato a questo gioco – non è altro che un gioco – sul mio podio virtuale, con Underworld avrei fatto salire volentieri le quadrilogie di Coniglio Angstrom e di Frank Bascombe. Ma va bene così.

Un’ultima curiosità: nel corso della selezione precedente, Pastorale Americana aveva letteralmente stracciato Le avventure di Augie March. Ebbene, di quel libro Philip Roth una volta disse: “È inutile pensare di scriverlo, il Grande Romanzo Americano esiste già, lo ha scritto Saul Bellow: è Le avventure di Augie March”. Sic transit.    

Angelo Cennamo

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ELEGIE ALLA PATRIA – Ayad Akhtar

Il Vietnam, l’assassinio di JFK e l’attentato alle Torri Gemelle sono gli eventi che hanno scosso di più l’America nella storia moderna. Dopo l’11 settembre le vite dei musulmani americani sono cambiate per sempre. Ayad Akhtar, scrittore e drammaturgo dal nome egiziano, di genitori pakistani ma nato e cresciuto nel Wisconsin è un testimone diretto di questo mutamento. Quasi dieci anni dopo la tragedia del World Trade Center, nel 2013, Akhtar si aggiudicò il Pulitzer con un dramma in cui uno dei personaggi gioisce per l’abbattimento delle Torri. L’argomento ritorna con “Elegie alla patria”, romanzo memoir nel quale si racconta il disagio di un americano che inizia a dubitare nei valori con i quali è cresciuto. Come un forestiero in patria, partendo dall’attentato di New York, Akhtar prova a smontare l’immagine della nazione inclusiva e generosa nella quale si è affermato prima suo padre, immigrato dal Pakistan, noto cardiologo dalle alterne fortune, poi lui stesso, autore che ha costruito il proprio successo sull’anticapitalismo e sul falso mito del sogno “A quel punto la mia decisione era presa: avrei smesso di fingere che mi sentivo americano”. 

“Elegie alla patria” è sopratutto questo: la storia di un padre e di un figlio che si contrappongono sull’idea dell’America. Lo scontro, spassossissimo, sull’ascesa di Donald Trump, vent’anni prima tra i pazienti del dott. Akhtar, riproduce in termini più composti e civili il conflitto dei Levov di “Pastorale Americana”, titolo al quale “Elegie alla patria” sembra fare il verso.

Nella letteratura di Akhtar l’Islam è ciò che rappresenta la religione ebraica nei libri dei fratelli Singer e di Philip Roth. 
L’identità, religiosa e politica, è dunque l’altro tema centrale del racconto. Akhtar figlio, pur non essendo un frequentatore di moschee, fatica a conciliare il dogmatismo etico che ispira ogni sua decisione col materialismo del paese nel quale è nato e vissuto. Akhtar padre, invece, è uno spregiudicato arrampicatore sociale e in quel mercantilismo esasperato si sente a proprio agio.

Tutto il romanzo è solcato dal doppio binario percettivo del vizio e della virtù, della fedeltà e della trasgressione, del sacro e del profano, della cultura di sinistra e di quella di destra; un alternarsi di vicende pubbliche e private che ci raccontano un’America diversa e poco conosciuta.

Angelo Cennamo

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