
Quando di un romanzo si dice che è ambizioso, si dovrebbe spiegare se l’ambizione in questione abbia o meno prodotto dei risultati o tradito le aspettative. “Verso il paradiso” (di Hanya Yanagihara – edito da Feltrinelli con la traduzione di Francesco Pacifico) è un libro lunghissimo, circa ottocento pagine; forse basterebbe questo a renderlo ambizioso: convincere i lettori ad acquistarlo. Le tre storie che lo compongono – almeno tre, perché poco alla volta la narrazione si dilata/sfibra così tanto da contenerne altre dieci – si toccano sì e no in un paio di punti: i nomi dei protagonisti (gli stessi), e un luogo molto chic di New York (Washington Square) intorno al quale gravitano alcune delle situazioni raccontate.
“Verso il paradiso” è romanzo ucronico: l’autrice cioè ha riscritto la storia secondo schemi e paradigmi alternativi rispetto alla realtà. E si sviluppa in tre epoche diverse: il 1893, il 1993, il 2093.
Tre le storie, tre le epoche, quattro i temi affrontati: amore omosessuale, identità, libertà, malattia.
La prima sezione, per chi scrive la più interessante, sembra rubata alla grande letteratura russa dell’Ottocento: il rampollo di una ricca famiglia newyorchese si rifiuta di sposare un uomo molto più anziano di lui e fugge dalle grinfie del nonno padrone con uno spiantato di dubbia moralità.
Nella seconda storia, sotto la cappa dell’AIDS, un giovane assistente si lega al socio più adulto dello studio legale dove lavora. Tra le pieghe del racconto l’autrice lascia un’impronta autobiografica: il giovane innamorato è di origini hawaiane.
La terza parte, la più corposa per numero di pagine, ci proietta in una New York del futuro, flagellata dalla dittatura e da una misteriosa epidemia che somiglia molto alla pandemia di questi anni (Yanagihara riferisce che ha iniziato a scrivere il romanzo nel 2016, prima quindi che si scoprisse l’esistenza del covid-19. Ha iniziato, dice lei, ma quando ha finito?).
Insomma, avrete capito che “Verso il paradiso” non è un romanzo come tanti altri, e più che le trame, non proprio irresistibili – in alcuni passaggi noiosissime, in altri più vivaci – sono il senso e la struttura (bella l’idea degli universi paralleli in cui sembrano muoversi i protagonisti) a fare la differenza; la collocazione spazio-nonspazio-temporale-atemporale di tutta la narrazione. Interessanti anche i richiami a Orwell (soprattutto nella terza parte), e a Dante (le tre sezioni ci appaiono come l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso della Divina Commedia).
La scrittura di Hanya Yanagihara è scorrevole e luminosa, ma la terza storia avrebbe richiesto un cambio di voce e di registro: non si può raccontare il futuro con la stessa prosa della precedente vicenda ottocentesca. “Non è un grande romanzo ma è un romanzo molto americano” ha scritto Claudia Durastanti. Cosa resta? L’ambizione, quella sì. E un pizzico di delusione.
Angelo Cennamo