COME UN’ONDA CHE SALE E CHE SCENDE – William T. Vollmann

“Il mio primo obiettivo nell’accingermi a scrivere questo libro era quello di creare un calcolo morale semplice e pratico per stabilire in quali casi sia accettabile il ricorso all’uccisione, quante persone si possono uccidere e così via”.

Oltre vent’anni di studio, migliaia di pagine ridotte all’osso, si fa per dire (l’edizione italiana tradotta da Gianni Pannofino ne conta 957), e l’ambizione più o meno esibita di segnare una tacca nella storia recente della letteratura americana con un’opera inclassificabile e di ampio spettro “Un libro che si propone di ridurre la quantità di violenza ingiustificata nel mondo, o almeno di ridurne l’insensatezza” scrive l’autore nella nuova prefazione, come dicevo notevolmente ridotta – un solo volume invece dei sette iniziali – tornata nelle librerie italiane quasi vent’anni dopo la prima apparizione del 2003. A spiegare il motivo della drastica riduzione dell’opera è lo stesso Vollmann: “l’ho fatto per soldi”. Proseguendo “questo libro mi ha tenuto in pugno, anno dopo anno. Provo un grande sollievo nel liberarmene: lo odio”. Niente male. 

Il progetto si divide in due parti. Nella prima, più teorica, Vollmann tenta tramite induzione, senso comune e analisi delle azioni anche di personaggi storici (Platone, Giulio Cesare, Gesù, Machiavelli, Napoleone, Lenin, Gandhi, e tanti altri), “di trovare un modo di classificare sul piano etico la violenza”. Questo blocco, a mio avviso il più interessante dei due, si conclude con un calcolo morale ricavato dalle precedenti elaborazioni.

La seconda parte è legata invece all’esperienza dell’autore e comprende una serie di studi monografici “sulla violenza e la percezione della violenza”. Il canone di Vollmann è documentato con perizia, dettagliatissimo, sviscerato alla sua maniera – nel post di lancio su Facebook, Luca Briasco ha definito Vollmann il più grande scrittore americano vivente – eppure comprensibile nonostante le fitte implicazioni/ramificazioni storiche, filosofiche, religiose, politiche (uno dei passaggi cruciali è sull’11 Settembre: la fondatezza del criterio di calcolo deve avere come precondizione che i fatti non siano controversi; un altro sull’autosufficienza che spiega l’uso delle armi nel Nordamerica).

La morte procurata dalla ferocia della condotta umana, dalla guerra, dagli Stati, da un destino beffardo, è un argomento che lo scrittore californiano conosce bene. L’empirismo di Vollmann, il tentativo riuscito o meno di vivisezionare la banalità del male, i suoi pensieri in libertà sulla violenza, passano attraverso la tragica scomparsa della sorellina Julie, annegata a sei anni quando lui ne aveva nove, e la guerra nella ex Jugoslavia che lo ha visto impegnato in prima linea. Vite spezzate. Molte di queste Vollmann le ha conosciute, ha guardato loro negli occhi prima di raccontarle nel suo “Come un’onda che sale e che scende”. 

Perché si dovrebbe leggere un libro così lungo, impegnativo, complesso, magmatico – la prosa è come sempre torrenziale – e con un’impostazione di tipo logico-matematico (la nonfiction di Vollmann ricorda un po’ quella del suo “gemello diverso” Foster Wallace)? Va letto perché è un libro di Vollmann e Vollmann è tra i pochi geni della parola scritta rimasti in circolazione dopo la scomparsa di Bolaño, il già citato Wallace, DeLillo, Pynchon (questi ultimi sono ancora vivi ma hanno già dato). Va letto perché è un libro fuori dall’ordinario e dal senso comune della letteratura, del tutto indifferente al gusto dominante e a qualunque tendenza (l’incoscienza dei grandi). Con “Europe Central” forse la cosa migliore pubblicata da Vollmann.

Angelo Cennamo

Pubblicità
Standard

CHIAMALO SONNO – Henry Roth

La strana epifania sulla scena letteraria di Henry Roth – autore di origini ucraine ma naturalizzato americano – e l’unicità della sua opera riconosciuta – quasi un one/book/novelist – ricordano la parabola del John Fante di “Chiedi alla polvere” e l’immutata freschezza di Raffaele La Capria, anche lui come Roth entrato nel mito con un solo romanzo. 

“Chiamalo sonno” – “Call It Sleep” – che nel corso della sua vita l’autore citerà spesso con l’acronimo CIS, venne pubblicato nel 1934. Roth allora aveva meno di trent’anni ed era un perfetto sconosciuto. In poco tempo il romanzo si trovò al centro di un’aspra polemica tra chi accusò lo scrittore di non aver colto l’opportunità di raccontare la cruda realtà dei ghetti ebraici confezionando al contrario un’opera borghese, e chi invece lo difese apprezzandone la vena poetica e intimista. Piccoli fuochi, se vogliamo, rapportati al grande successo che arrivò solo nel 1960, a seguito cioè di una insperata ripubblicazione del libro che se da un lato consacrò il non più giovane Henry tra i maggiori romanzieri americani della sua generazione, nel contempo lo trovò del tutto impreparato alle luci della ribalta, avendo egli abbandonato le iniziali ambizioni di scrittura per dedicarsi ad altri mestieri tra i quali quello di allevatore di anatre. 

“Chiamalo sonno”, uscito in Italia prima nel 1964 con l’editore Lerici poi nel 1986 con Garzanti – traduzione di Mario Materassi – è il più classico dei romanzi di formazione. Non solo. La New York di inizio Novecento vista con gli occhi del piccolo David Schearl, per quanto il romanzo sia scritto in terza persona, è un luogo di meraviglie, di anfratti da esplorare in una duplice dimensione, quella pubblica (in questo senso il romanzo lambisce il saggio storico: immigrazione, ebraismo, dinamiche sociali) quella familiare, tra vicende poco chiare (possibili tradimenti, dubbia identità biologica del protagonista) e violenza domestica.

A differenza di Oskar Schell, il bambino newyorchese del romanzo di Safran Foer che si mette alla ricerca virtuale del padre assente perché scomparso nell’attentato alle Torri Gemelle, il nostro David deve scontrarsi con un genitore fin troppo presente, manesco, svitato, arrogante anche con la moglie, arrivata dall’Europa nella “Terra Dorata” con il suo bambino lasciandosi alle spalle un passato ambiguo e opaco. È questo uno dei temi più interessanti della storia: l’antefatto. David è un ragazzino sensibile e curioso; le sue continue scoperte: il sesso, l’amicizia, la morte, Dio, sono un lento processo di iniziazione che finisce per coinvolgere il lettore e guidarlo attraverso una narrazione potente e lirica al tempo stesso, nella quale ritroviamo pezzi di un’altra straordinaria epopea ebraica dei primi del Novecento, quella dei fratelli Singer.

Angelo Cennamo

Standard

FACTOTUM – Charles Bukowski

Eh sì, la vita del giovane Bukowski somiglia abbastanza a quella di John Fante. Due disperati in cerca di fortuna e con tanta voglia di scrivere. Sempre in giro, Charles e John, tra bettole e squallide stanze d’hotel. Pochi dollari in tasca, mestieri improvvisati. Charles è sempre brillo, John lo è molto meno. Se “Chiedi alla polvere” di Fante è diventato un classico della letteratura del Novecento, lo dobbiamo soprattutto a Bukowski, fu lui a pretendere dal proprio editore la ripubblicazione di quel libro, letto per caso in una biblioteca pubblica e nel quale, da giovane spiantato, si era riconosciuto. Realismo sporco, così viene definito lo stile di questo outsider della narrativa americana, alla stregua di Hubert Selby jr e William Burroughs, poeti maledetti di una stagione che non ha eredi. Scrittura piana, frasi brevi, volgarità, ma anche sprazzi di poesia e tanta ironia, tanta vita vissuta soprattutto. 

“Factotum” esce negli Usa nel 1975; qui da noi arriva vent’anni dopo. È praticamente il romanzo che ha rivelato Bukowski al pubblico italiano. Una storia di sbronze e di lavori precari, tutta on the road; il protagonista, Henry Chinaski – l’alter ego dell’autore – si trascina da una città all’altra degli Stati Uniti “Fare la valigia per me era sempre un momento felice” senza nessuna meta, affidandosi al caso, all’improvvisazione. Henry non ha nessuna voglia di lavorare ma il pallino della scrittura non lo molla. Butta giù racconti in stampatello a “ritmo di record”, ubriacandosi e ascoltando “la Quinta di Beethoven, la Seconda di Brahms”, li spedisce a una rivista newyorchese che quasi sempre glieli restituisce. Henry scrive, beve, scopa. Quanto dista Bukowski da Henry Miller?Disperato, erotico, stomp. 

Angelo Cennamo

Standard