
Nel 2020 ci aveva stupito con “Shuggie Bain”, la storia romanzata della sua vita, arrivata al Booker Prize dopo essere stata rifiutata da ben trentadue editori – libro dell’anno per Telegraph Avenue. Con “Il giovane Mungo” Douglas Stuart torna nei luoghi dell’infanzia, in una Glasgow già capitale europea della cultura – siamo nei primi anni Novanta – ma ancora affamata di libertà civili e divisa tra cattolici e protestanti. La periferia orientale è il microcosmo nel quale l’autore colloca le vicende di Mungo Hamilton, chiamato così in omaggio al santo patrono della città. Mungo vive con la madre – Ma-Mo – giovanissima e travagliata come la Agnes del libro precedente (in due romanzi su due Stuart pone al centro “sua” madre, questo non è solo un tema, è qualcosa di più: è dare un senso a quello che scrivi; la somiglianza tra Ma-Mo e Agnes è evidente), la sorella Jodie e il fratello Hamish, capo di una gang locale che fa di tutto per trascinarlo negli ambienti criminali.
Il quartiere di Mungo è come il rione Luzzati di Lila e Lenù del romanzo di Elena Ferrante, un crogiolo di tradizione, cultura operaia, religione, arte del sopravvivere. È soprattutto un mondo di maschi che impone la regola del più forte contro ogni altra forma di misericordia laica. La prima vittima di questa grammatica machista è proprio Mungo. L’amicizia poi amore con il cattolico James Jamieson occupa la parte centrale, anche dal punto di vista della paginazione, del romanzo, ma fate attenzione a non liquidare “Il giovane Mungo” come una storia gay o peggio come un romanzo gay – la cover italiana e quella dell’UK sembrano agevolare questa rappresentazione. Quello di Stuart è piuttosto l’affresco – giuro che non userò più questa parola – di una società chiusa, ostile al cambiamento, il paradosso o controclichè di un profondo Nord che non ha nulla da insegnare al Sud del mondo.
“Non essere come me, Mungo. Non è troppo tardi per te”, dice James. Ma James si sbaglia.
Angelo Cennamo