MOBY DICK – Herman Melville

Quella che state per leggere, sempreché abbiate voglia di farlo, non è una vera recensione, piuttosto è il resoconto, forse poco dettagliato, magari perfino superfluo, di un’esperienza che, se per mille altri libri si è tramutata bene o male in giudizio critico, estetico, a volte in analisi del testo, comparazione, esegesi, in casi come questo rimane invece pura osservazione. Testimonianza. Non oltrepassa cioè la soglia dello sguardo. Il mio sguardo, ovviamente. Prudenza. Umiltà. Inutilità della parola ulteriore. Ecco cosa intendo dire nel-non-dire. Osservazione muta, dunque, se non nella rappresentazione del pungolo, visivo e intellettivo, che solo certe opere riescono a trasmettere. Del resto cos’altro potrebbe aggiungere il sottoscritto a decine di manuali, tomi di filologia, tavole rotonde, dedicati a questo monumento di carta, a questo poema epico in prosa (vale quanto l’Iliade e l’Odissea), a questa rampa autostradale che ci immette direttamente sulla tre corsie della letteratura moderna americana? È già tutto scritto, tutto spiegato, argomentato, addomesticato, reso fruibile con note, introduzioni, postfazioni. “Moby Dick” di Herman Melville. Cinque parole che sembrano una sola. Lessi l’edizione curata da Cesare Pavese negli anni del liceo. Nel mio giovane cuore innamorato degli States, Melville era stato preceduto solo da Mark Twain, Salinger e dall’Alex Haley di “Roots”, il romanzo di Kunta Kinte. Pavese, come Bianciardi e Vittorini, fu tra i pionieri delle traduzioni americane. Fu soprattutto un autodidatta. Quelle versioni, l’Hemingway della Pivano, per dire, che di Pavese fu allieva, sono diventate leggendarie nonostante le numerose imperfezioni. Eppure, il suo collega Melville, Pavese lo tradusse in modo magistrale: dove non poté arrivare la conoscenza della lingua, supplì il genio creativo dello scrittore. Mi rendo conto che l’argomento è troppo vasto per essere sviscerato nelle poche righe di questa mia testimonianza, poche ho scritto ma, a quanto pare, non sembrano affatto poche. A distanza di anni ho ripreso “Moby Dick” nell’edizione agevole – agevole in quanto prensile – di Feltrinelli, curata da Alessandro Ceni (molto bravo al di là degli strani toscanismi che ogni tanto affiorano nel racconto, ne avevo trovati diversi anche nell’Ulisse di Joyce) con il timore reverenziale che richiede l’approccio a ogni capolavoro che sia autenticamente tale. Concordo con Ceni quando nella sua precisa prefazione del romanzo ci suggerisce di leggere “Moby Dick” senza badare alle sovrastrutture o alle implicazioni simboliche sedimentate intorno al testo: riflessi dell’epica omerica, il viaggio di Ulisse, certo, ma anche quello di Dante “Sì, il mondo è una nave che compie la traversata d’andata, non quella di ritorno, e il pulpito è la sua prora”, della tragedia shakespeariana, della strada che molti anni dopo percorreranno Kerouac e come lui tanti altri “Un bel giorno, senza dire niente a nessuno, me ne andai a Genova e mi imbarcai su un cargo battente bandiera liberiana” (Carlo Verdone, Borotalco). Immagini reali o sovrapposte attraverso sillogismi forse neppure voluti dall’autore. L’atteggiamento giusto, la migliore postura mentale verso l’opera è abbandonarsi alla storia in sé, dimenticando o aggirando l’artificioso mondo della rilettura critica, della dietrologia che talvolta finisce per incrostare e appesantire il racconto, spostandone l’asse della trama. Melville non aveva altro scopo se non quello di raccontare la storia che lui aveva immaginato.

Il romanzo è diviso in tre blocchi virtuali: l’antefatto (ovvero la menomazione inflitta dalla Balena Bianca al capitano Achab – pagine 218 e 219); il fatto (l’ossessione per la vendetta che conduce Achab alla follia e allo scontro finale con Moby Dick – “Io adesso profetizzo che smembrerò il mio smembratore” – scontro che si risolve in poche decine di pagine); tutto il resto. Tutto il resto è la parte centrale del romanzo, la più ampia ma anche la più sfaccettata. In questa, chiamiamola sezione, la storia segue due percorsi, talvolta alternati, altre volte intrecciati l’uno all’altro senza che si possa distinguere il primo dal secondo: la fiction diventa saggio; capitoli come “Cetologia”, “Lo Specksynder”, “Delle raffigurazioni mostruose di balene”, “La sagola”, “La forcola”… sono dei veri e propri manuali brevi di navigazione, di pesca, di storia e scienza ittica, e la vasta grammatica marinaresca richiede un assiduo ricorso alle note a margine. 

Vediamo ora i protagonisti, che al di là della ciurma del Pequod – la nave che fa da palcoscenico alla storia “il colorito del suo vecchio scafo era abbrunato come quello d’un granatiere francese che avesse combattuto sia in Egitto sia in Siberi” – e del capodoglio dal quale prende il titolo il romanzo, sono tre: Ismaele, l’osservatore e narratore dei fatti “Ficcai una camicia a due nella mia vecchia sacca da viaggio, me la cacciai sotto sotto il braccio e partii per Capo Horn e il Pacifico”; il mitico – parola abusata ma in questo caso appropriatissima – capitano Achab; il primo ufficiale Starbuck, ovvero l’unico membro dell’equipaggio che prova a resistere al folle piano del capitano sfregiato: cacciare un animale non per guadagno ma per vendetta. Achab però ha deciso. Melville lo fa comparire per la prima volta a pagina 152. Irrompe sulla scena preannunciato da una fama leggendaria… “L’intera sua alta, ampia forma pareva fatta di bronzo massiccio e foggiata in uno stampo inalterabile, come il Perseo fuso dal Cellini”. 

Dicevo della parte mediana della storia-non storia: giorni e giorni di navigazione, dettagli sulla vita di bordo, i ruoli dell’equipaggio, le procedure, i paesaggi marini, le balene (come vivono, come si distinguono le une dalle altre, l’aneddotica). “Moby Dick” è tutto questo. Una grande avventura che si compie lontano dalla terra ferma e lontano dal nostro tempo. I tratti che ci colpiscono di più sono: il doppio binario sul quale Melville fa scorrere il senso del racconto (il duello tra il capitano Achab e la Balena Bianca e la sua traslazione poetica nell’eterno conflitto tra uomo e natura); l’antropocentrismo quasi demoniaco di Achab invano contrastato da Starbuck, il marinaio saggio e animalista (oggi diremmo) che conosce e soprattutto accetta i limiti dell’uomo anche di fronte alla natura più maligna. 

Ha ancora senso leggere romanzi pubblicati due secoli fa? La domanda alla quale dovremmo rispondere, secondo me, è un’altra: come fanno certi libri a sopravvivere per così tanto tempo? Imbarcatevi sul Pequod e lo saprete. 

Angelo Cennamo

Pubblicità
Standard

Una risposta a "MOBY DICK – Herman Melville"

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...