WALLACE COME ESPERIENZA RELIGIOSA

“Una cosa divertente” che faccio sempre è leggere cosa scrive Gian Paolo Serino, critico letterario e mio nuovo amico (ebbene sì). Giorni fa, Serino ha pubblicato su Facebook un post molto interessante su David Foster Wallace demolendo di fatto il mio scrittore del cuore. Del post condivido poco per ovvie ragioni, ma le argomentazioni di Gian Paolo sono “terribilmente, terribilmente…” adeguate rispetto a chi nel genio di Ithaca non riesce a trovare spunti o elementi di attrazione (è lecito). 

Provo allora a dire la mia su alcuni punti (il post è lunghissimo) che non mi trovano d’accordo.

“David Foster Wallace è un classico autore da esibire: più commentato che letto”. 

Vero. Alla pari di Joyce e Proust, per esempio. Una volta Carmelo Bene disse una cosa divertentissima su “Ulisse”: negli anni Sessanta lo trovavi sui tavoli dei salotti della borghesia. Messo lì, di sguincio, ostentato. Non lo leggeva nessuno ma andava mostrato agli ospiti per fare bella figura. È il destino degli scrittori difficili ma così osannati dalla critica che non ti va di trascurarli. A costo di fingere.

“Wallace non è altro che un prodotto, un logo da esportazione sinonimo di una qualità narrativa più ventilata che effettiva, di una ricerca più vicina al marketing intellettivo che all’intelletto”.

Al di là dell’estetica del periodo (così bello da sembrare scritto proprio da Wallace), io penso che il marketing intellettivo di Wallace (che esiste per davvero) sia un prodotto non di Wallace ma di chi lo adora talvolta senza pudore (mi ci metto anch’io) al punto di generare un nuovo contenuto fuori dal contenuto reale. La mitizzazione di Wallace ha creato nel tempo un secondo Wallace che viaggia sul canale parallelo del Wallace autentico. Un Wallace filtrato attraverso l’esegesi, l’analisi, il giudizio, il gusto, e destinato a chi Wallace non lo ha mai letto o non lo ha ancora letto. Forse perché ne ha paura.

E poi: siamo proprio sicuri che la prosa di Wallace “è  sempre siderale”? Non sarà piuttosto DeLillo l’autore “siderale”, tanto per rimanere nel circolo del postmodernismo? Cosa c’è di siderale in “Una cosa divertente che non farò mai più”, “La scopa del sistema” o “La ragazza dai capelli strani”?  

“Bisogna leggere Wallace per capire che “la cultura di massa è la grande ninna nanna che culla gli Stati Uniti d’America col suo affettato la la la”?, si chiede Serino. No, non è necessario. Ma, attenzione, Wallace è andato oltre questa nota. Wallace si concentra sul pericolo della dipendenza che la cultura di massa può ingenerare. E questo passaggio, che non mi pare avere precedenti, è anche il tema centrale di “Infinite Jest”, che (io) invece considero un romanzo originale per quanto la definizione di “blob cartaceo o bobina impazzita” di Serino mi piaccia molto, e per quanto mi trovi perfettamente d’accordo sulle pregresse peripezie di Gaddis da lui citate, che non hanno solo ispirato Wallace ma almeno una decina di autori della sua generazione. Insomma, Wallace o piace troppo o non piace per nulla.

Angelo Cennamo

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VIZIO DI FORMA – Thomas Pynchon

C’è una cosa che voglio dire di Pynchon prima che me ne dimentichi: Pynchon è forever young, l’eterno ragazzo della letteratura americana; cioè la sua verve narrativa è paragonabile a quella di un adolescente. Prendete ad esempio “Vizio di forma”, il romanzo è uscito nel 2009: Pynchon allora aveva superato i settanta, eppure, leggendo il libro, si ha la sensazione che ne abbia cinquanta di meno. Sarà per la comicità demenziale (alcuni passaggi fanno pensare alla filmografia di Jim Carrey), per la freschezza della scrittura, per il cazzeggio infinito che mette in secondo piano tutto il resto. Come sempre la trama è un pretesto, conta il senso, conta il mood. “Vizio di forma” è prima di tutto il tributo a una stagione finita alla quale Pynchon ha strizzato l’occhio anche in altre pubblicazioni: l’epopea hippy, l’esercito del surf e dell’LSD californiano degli anni Settanta. Se vogliamo, il libro è una gigantesca allucinazione, oltre che un affresco (uh che brutta parola) preciso e sbiadito dal “fumo”. Ma nei rari momenti di lucidità – scherzo – intravediamo eccome una storia noir, divertente, e architettata (occhio a pagina 46) come da uno specialista del genere. Il protagonista di questa storia è Doc Sportello, un investigatore privato (e drogato), reclutato da una vecchia fiamma (Shasta) per indagare sulla scomparsa del suo nuovo amante, un ricco immobiliarista finito in un brutto giro nel quale sarebbe implicata anche la moglie di lui. Doc accetta l’incarico solo perché è ancora innamorato di Shasta, ma già dalle prime battute le cose si mettono male, molto male. 

Per comprendere appieno il talento di Pynchon occorrerebbe leggere i suoi libri in lingua originale, senza nulla togliere alla traduzione di Massimo Bocchiola per Einaudi, e soprattutto conoscere i retroscena della cultura americana che incorniciano ogni storia, a cominciare dalle citazioni musicali. Tutti gli altri sono chiamati a uno sforzo maggiore: può accadere cioè di non capire tutto, di perdere il filo; pazienza, non è questo lo spirito col quale approcciare autori così bizzarri.

I romanzi di Pynchon somigliano a certi abiti stravaganti che vediamo sfilare sulle passerelle dell’alta moda: nessuno si sognerebbe di indossarli, però quanti spunti, quanti suggerimenti. Mappe di orientamento per cogliere il filo (questo è il filo che conta) della buona scrittura contemporanea. Pynchon non può mancare nello scaffale. Pynchon serve. Serve per imparare a leggere meglio e a scrivere meglio. Dicevo di Sportello: che fine farà il nostro Doc? Be’, ecco… diciamo che… ma chissenefrega di Doc Sportello. 

Angelo Cennamo

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EMPIRE FALLS (IL DECLINO DELL’IMPERO WHITING) – Richard Russo

Romanzo sulla disgregazione, di una comunità, della sua economia, di due famiglie: i Whiting e i Roby. Richard Russo è un newyorchese innamorato del Maine, ed è proprio in questo piccolo stato del nordest americano, affacciato sull’Atlantico, che decide di collocare la sua storia. Il libro esce in un anno cruciale per il destino della nazione e del mondo intero, il 2001; nel 2002 vince il Pulitzer battendo in finale – udite udite – “Le correzioni” di Jonathan Franzen (che si rifarà col National Book Award) e “John Henry Festival” di Colson Whitehead (che di Pulitzer ne vincerà addirittura due qualche anno dopo). I libri di Russo sono delle ottime biografie degli Stati Uniti e “Il declino dell’impero Whiting” – che io preferisco chiamare con il titolo originale “Empire Falls” – così come il più recente “Le conseguenze”, sempre edito da NeriPozza, ce lo confermano. La vicenda, molto lunga, oltre 600 pagine, si snoda attraverso le vite semplici degli abitanti di una piccola cittadina (Empire Falls) dal passato operoso, e che oggi vivacchia con i rimasugli di una stagione non più ripetibile. La stagnazione economica, l’impoverimento dei suoi abitanti, è incarnato da Miles Roby, personaggio che ricorda un po’ il Morris Bober del capolavoro di Malamud per la bontà, la fede, la rettitudine, lo spirito di sacrificio con i quali affronta le dure sfide del presente. Miles cuoce hamburger in una tavola calda (Empire Grill) di proprietà di Francine Whiting, vedova di Charles Whiting e matriarca di una ricca stirpe di imprenditori. La sola speranza di Miles è ereditare il ristorante – la vedova gliel’avrebbe promesso ma non se ne comprendono le ragioni – e assicurare un futuro a Tick, l’unica figlia avuta dal matrimonio (finito anche quello) con Janine. L’Empire Grill è il “luogo” della storia ma anche il crocevia di una narrazione apparentemente lenta, costruita intorno a un infinito viavai, confessioni, ricordi, strane coincidenze, fughe, ritorni, con una polifonia ben calibrata e dialoghi perfetti. Le affinità elettive o inclinazioni artistiche di Miles e del defunto Charles Whiting, arrivato a dirigere l’impero economico del capostipite dopo un decennio di latitanza “poetica” in Messico, sono una traccia interessante. Ma di piste ce ne sono tante altre: il divorzio tra Miles e Janine, che a quarant’anni si è data alla palestra e al sesso sfrenato con Walter Comeau (Volpe Argentata); il rapporto difficile tra Miles e quel “disturbatore della quiete pubblica” di suo padre; gli scontri con il fratello-socio che coltiva marijuana; le tentazioni della traviata Charlene, della quale Miles è silenziosamente innamorato da anni. E poi c’è lei, la matriarca Francine, con i fasti, i fantasmi del passato, e una tragedia familiare poco chiara. 

Le storie di Russo, che scorrono su un doppio binario temporale (l’infanzia e l’età adulta di Miles), sono dense, vaste alla maniera di Whitman; alcuni passaggi possono sembrarci inutili rispetto alla trama principale, ma sono parte di quella “moltitudine” e di un impianto largo che pretende di includere tutto per risultare più credibile e attrattivo.

La voce di Miles è così forte, udibile dal lettore, da annullare quasi la terza persona che Russo ha scelto per raccontarci degli abitanti di quella terra sperduta. Dov’è l’America, cosa accade nel mondo mentre Miles, Max e Janine vivono le loro vite? Un puntino su una mappa geografica, questo è Empire Falls. 

Angelo Cennamo

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L’ECLISSE DI LAKEN COTTLE DI TIFFANY McDANIEL È IL LIBRO DELL’ANNO PER TELEGRAPH AVENUE

Trentasette anni, originaria dell’Ohio, Tiffany McDaniel è una delle voci più interessanti della nuova letteratura americana. Un’osservata speciale. Con il suo romanzo d’esordio “L’estate che sciolse ogni cosa” si è aggiudicata il “Not-the-Booker Prize” di The Guardian 2016 e imposta all’attenzione della critica di mezzo mondo.

“L’eclisse di Laken Cottle” – Atlantide, traduzione di Clara Nubile – conferma una linea narrativa originale e innovativa che non si piega alle offerte editoriali più in voga, appiattite su trame collaudate e riciclate con pochi margini di rischio. È una fiaba dark sul senso del divenire e sul destino che ci attende. McDaniel si fa tentare dal gotico ma vola più in alto: è un po’ Borges, un po’ Shirley Jackson. Il buio che come una cappa scende sulla vicenda del romanzo, non è il blackout tecnologico che “silenzia” i personaggi dell’ultimo DeLillo, è un buio vero, assenza di luce, un lento spegnimento del sole che ingoia ogni cosa. E mentre la terra si oscura, Laken, il protagonista, cerca disperatamente di fare ritorno dalla propria famiglia. Quel buio è l’eclissi della mente che nasconde la verità, gli verrà spiegato nelle ultime scene del viaggio. A Laken non resta allora che annullarsi, rimuovere sovrastrutture e pregiudizi per ritrovare la rotta verso casa.

C’è sempre qualcosa di mistico nelle storie di Tiffany McDaniel. Una strana e briosa magia che turba i lettori e “smuove le montagne” avrebbe chiosato un altro genio del Midwest che non ha fatto in tempo a conoscerla. “L’eclisse di Laken Cottle” è il libro dell’anno per Telegraph Avenue. 

Angelo Cennamo

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LA SHORTLIST DEL 2022 DI TELEGRAPH AVENUE

Matthew Baker, giovane scrittore del Michigan, look da ragazzo punk: volto emaciato, felpe e giacche di pelle fuori misura, è autore di numerosi racconti apparsi su riviste come The New York Times Magazine e The Paris Review. Variety lo ha indicato tra “i dieci più interessanti narratori da seguire”. “Perché l’America” (“Why visit America” Sellerio – traduzione di Veronica Raimo e Marco Rossari) è una raccolta di shortstories – tredici, una per ogni striscia della bandiera americana – originali, innovative per forma e contenuto, richiestissime anche dalle case cinematografiche, che ci mostrano un’America del futuro prossimo distopica, o utopica se preferite. Un libro che “alza l’asticella”, insomma, prezioso, rassicurante per nostalgici come il sottoscritto di David Foster Wallace.

“Ferrovie del Messico” (Laurana) è un vero prodigio, non saprei definirlo in altro modo. Il romanzo, lunghissimo ma scorrevole, è circolato tra i lettori con un passaparola quasi carbonaro, tanto che tuttora è difficile trovarlo in libreria, vi conviene prenderlo direttamente online. Lo ha pubblicato Gian Marco Griffi, scrittore quarantenne cresciuto nel Monferrato – della scuderia di Giulio Mozzi – ma sembra scritto da Roberto Bolaño a sei mani con Thomas Pynchon e Vinicio Capossela. Tra le cose migliori uscite in italia negli ultimi anni. 

Di Hernan Diaz, autore argentino di Buenos Aires naturalizzato americano, avevamo già letto e apprezzato “Il falco”, romanzo epico che ha reiventato il genere western e che nel 2018 ha sfiorato il Pulitzer. Con “Trust” (Feltrinelli – traduzione di Ada Arduini) Diaz ci conduce nel mondo di Wall Street per raccontarci una storia oscura e di non facilissima lettura, con quattro versioni diverse. Interessante la trama, stupefacente la struttura.  

La discussa biografia di Philip Roth (Einaudi – traduzione di Norman Gobetti) è un’opera monumentale sotto ogni aspetto, imperdibile per tutti i lettori (quelli più rodati) del genio di Newark. Precisa, dettagliata, scritta (come un romanzo) da Blake Bailey (già autore delle biografie di Richard Yates e John Cheever) ma con il cuore e lo stile del protagonista. Siamo sicuri che non ci sia anche il suo zampino? “Non voglio che mi riabiliti. Solo che mi rendi più interessante”.

Tiffany McDaniel proviene da una terra feconda dal punto di vista letterario: il Midwest americano. Se non lo avete ancora letto, vi suggerisco di recuperare il bellissimo “L’estate che sciolse ogni cosa”, romanzo di formazione con una forte impronta gotica. “L’eclisse di Laken Cottle” (Blu Atlantide – traduzione di Clara Nubile) è una fiaba dark sul senso del divenire e sul destino che ci attende; un’altra bella prova di questa giovane romanziera dal talento cristallino. Opera dai contorni mistici, a metà tra il realismo magico di Borges, il postmodernismo di DeLillo, il lirismo di Cormac McCarthy.  

Sono questi i libri selezionati per la shortlist 2022 di Telegraph Avenue. Uno dei cinque, il 15 dicembre, sarà scelto come libro dell’anno. 

Angelo Cennamo

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