IL DIACONO KING KONG – James McBride

Cuffy Lambkin, per gli amici Sportcoat o King Kong, per via di quello strano liquore che gli rintrona il cervello, è il diacono della chiesa battista di Five Ends. Siamo a Brooklyn, nel 1969. Le Cause Houses sono un luogo malfamato ma la fratellanza supera ogni steccato e la chiesa è un avamposto contro il crimine e la devianza giovanile. 

Sportcoat parla col fantasma di Hettie, la moglie morta annegata che qualche anno prima ha fatto sparire chissà dove la cassetta con le offerte del club natalizio. È un tipo bizzarro, questo diacono, ma ha una storia, e tutti gli vogliono bene. Il romanzo si apre con uno sparo. Non ci crederete ma a premere il grilletto di una vecchia P38 è proprio Sport. La vittima (non) designata è Deems Clemens, un giovanissimo spacciatore che in un altro tempo era stato “messo sulla via del Signore” dallo stesso diacono, suo catechista e anche allenatore di baseball (il baseball ricorrerà spesso), insomma una specie di secondo padre. Ma per quale dannata ragione Sport ha sparato a Deems? È un falso mistero, lo scoprirete leggendo il libro. Scoprirete anche che lo sparo è un’astuzia di James McBride – scrittore afroamericano, jazzista, sceneggiatore per Spike Lee, vincitore del National Book Award nel 2013 con “The Good Lord Bird” – per tenere insieme il suo affresco (una volta si diceva così) su questa sgangherata “Repubblica di Brooklyn” degli anni Sessanta, dove i gatti urlano come esseri umani, i cani mangiano le proprie feci, “le zie fumavano come ciminiere e morivano a centodue anni”, e dove processioni di formiche seguono la pista di uno strano formaggio. “Il diacono King Kong” – edito in Italia da Fazi con la traduzione di Silvia Castoldi – è un agglomerato di situazioni, intrecci, identità, senza una vera trama. La finestra (aperta) su un cortile di traffici poco leciti, liturgie salvifiche, un’umanità di disperati allegri (neri, ispanici, italiani) di cui Tommy Elefante, un timido scapolo sovrappeso che prova a resistere alle pressioni dei clan, è il miglior attore non protagonista. McBride è un Colson Whitehead con il dono dell’ironia. Leggendo il romanzo potrebbe tornarvi in mente “Il ritmo di Harlem”, con il quale questo graphic novel dai colori accesi ma tutto da immaginare, forma un dittico ideale. 

La leggerezza di McBride è quella di sempre, e il suo crime comico, a metà tra l’Huckleberry Finn di Twain e il sangue e merda del “Pulp Fiction” di Tarantino – tra i dieci romanzi del 2022 per il New York Times – riesce perfino a commuoverci.

Angelo Cennamo

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