UN AMORE di Dino Buzzati
Nel settembre del 1962 Dino Buzzati completa la stesura di Un Amore, il romanzo che verrà dato alle stampe pochi mesi dopo nel 1963, e lo invia al suo amico Franco Mandelli. Vuole un parere soprattutto sull’ultimo capitolo e scrive:
“La storia finisce bene, secondo i tuoi desideri, che sono anche i miei. Cosicché quello che potrebbe sembrare, a prima vista, una storia cruda e in alcuni punti quasi oscena, si risolve in una favola morale e piena di bontà. Ma farà poi questa impressione? L’importante è adesso attutire certi pezzi troppo spinosi e apportare quei cambiamenti necessari per evitare pericolose identificazioni”.
L’identificazione che Buzzati teme è quella tra lui ed Antonio il protagonista del romanzo.
Antonio Dorigo (che è quasi l’anagramma dell’ufficiale Drogo de Il Deserto dei Tartari, il capolavoro di Buzzati) è uno stimato professionista nella Milano del dopoguerra e assiduo frequentatore di quelle case di tolleranze le cui generose prestazioni una legge di Stato del 1958, quella Merlin, aveva dirottato verso certi compiacenti salotti alto borghesi della città. In uno di questi salotti Antonio incontra quella che all’inizio sembra l’ennesima preda del suo vizio, la giovanissima Laide, dalla quale invece è stregato e trascinato in una passione che ha man mano più a che fare col sentimento che con il sesso. Leggendo il libro si assiste perciò ad un ribaltamento dei fini perché mentre l’uomo attempato scopre tardivamente che c’è un mondo che ha senso esplorare solo con la persona amata, e che questo mondo è governato da una forza misteriosa e attrattiva paragonabile a quella dei sensi, dall’altra parte c’è una donna ancora giovanissima, ma che ha il disincanto di chi le ha già viste tutte e crede che per lei ormai non c’è più, o non c’è mai stata, una possibilità di felicità. Questa discrasia genera un rapporto sbilanciato dove al sentimento nuovo e pulito di Antonio fanno da contraltare le menzogne che gli racconta Laide ed il tarlo del sospetto, che assume giorno dopo giorno le sembianze di un’umiliazione pesante per Antonio, quella di non riuscire a strappare la ragazza al sordido mondo cui appartiene.
Buzzati mentre scrive Un Amore ha la stessa mezza età di Antonio Dorigo e sta faticosamente cercando di uscire da una situazione simile a quella vissuta dal protagonista del romanzo: ha conosciuto una ballerina della Scala che arrotonda lo stipendio con certe prestazioni fuori orario. Se ne innamora, ma non è evidentemente ricambiato. I suoi amici intimi se ne accorgono, sanno che Dino vive un periodo difficile e tra questi c’è Almerina Antoniazzi, la donna, anche lei giovanissima come la Laide del romanzo, che diventerà sua moglie qualche anno dopo nel 1966.
Un Amore è molto più di un romanzo erotico come fu inizialmente bollato. Molti critici ci hanno visto il completamento della metafora che aveva reso Il Deserto dei Tartari un capolavoro. Il vertice della parabola dell’esistenza è nel Deserto dei Tartari irraggiungibile e tutta la vita è spesa nella tensione a raggiungerlo. Nell’ultimo capitolo di Un Amore invece quel vertice della parabola sembra essere raggiunto: lo scopo di redimere Laide è ottenuto da Antonio, la storia finisce bene, secondo i desideri dell’amico a cui Buzzati aveva inviato il manoscritto. Ma l’ultimo capitolo di Un Amore contiene qualcosa che ne Il Deserto dei Tartari non c’era; viene svelato il premio che aspetta chi varca il vertice della parabola: il tomento del pensiero della morte.
“Sì l’amore gli aveva fatto completamente dimenticare che esisteva la morte. Per quasi due anni non ci aveva pensato neppure una volta, sembrava una favola, proprio lui che ne aveva avuto l’ossessione nel sangue. Tanta era la forza dell’amore. E adesso all’improvviso gli era ricomparsa dinanzi, dominava lui, la casa, il quartiere, la città, il mondo con la sua ombra e avanzava lentamente”.
E a proposito di parabola dell’esistenza dello scrittore, vera e non romanzata, c’è un episodio che la moglie dello scrittore ha rivelato tanti anni dopo la morte di Buzzati: accadde qualche settimana prima che Buzzati morisse, nel 1972; il cancro al pancreas non gli sta dando scampo, Almerina lo sa e combina un incontro in ospedale con la ballerina della Scala che Dino aveva amato di un amore malato prima di lei. La moglie li lascia soli nella stanza, e nessuno sa cosa si siano detti, ma quando dopo Almerina chiede a Dino se fosse stato contento di quell’incontro, la risposta di Buzzati è laconica: è come se fosse venuta a trovarmi la mia stiratrice.
Angelo Novatzky
LE VIE DELL’EDEN di Eshkol Nevo
C’è una citazione di John Lennon che potrebbe sintetizzare in un’unica frase quest’ultima opera dello scrittore israeliano Eshkol Nevo, Le Vie dell’Eden:
“La vita è quella cosa che ci accade mentre siamo occupati a fare altri progetti”.
Una sintesi che rappresenta anche la sensazione che si prova quando si finisce di leggere questo libro, composto da 3 racpconti indipendenti, ma legati da un unico filo rosso. Si rimane con l’incertezza che gli imprevisti su cui i 3 sfortunati protagonisti sono inciampati, come su pietre diverse ma ugualmente scandalose, possano essere considerati del tutto accidentali.
Uno alla fine si chiede: ma i fatti sono accaduti mentre i protagonisti erano in altre faccende affaccendati e perciò non c’è una loro consapevole e colpevole responsabilità, oppure il caso ha semplicemente assecondato una loro recondita premeditazione?
Ma andiamo per ordine.
I protagonisti dei 3 racconti sono ciascuno in una fase dell’esistenza che renderebbe vulnerabile chiunque: il musicista delle percussioni che sta cercando di rigenerarsi con un viaggio in Bolivia dopo un faticoso divorzio che gli ha lasciato l’assillo di una figlioletta da difendere dal dolore della lontananza affettiva dei genitori; l’anziano primario ospedaliero che deve affrontare una nostalgica vedovanza dopo una lunga simbiosi con la amata moglie; una quarantaduenne che prova a risolvere altrove, lontano dalla camera da letto coniugale, il calo del desiderio del consorte.
Mentre sono lì a riprogettare la propria vita, ai tre accade un fatto che mina ancor più le loro certezze e li pone in una posizione a dir poco imbarazzante, quella di dover preparare un memoriale difensivo con cui narrare tutti i dettagli delle storie incresciose in cui sono stati coinvolti. Per allontanare gli indizi che stanno trovando convergenze contro di loro, il batterista dovrà discolparsi dall’accusa di complicità in omicidio con una giovane sposa israeliana insoddisfatta del proprio marito già durante il viaggio di nozze in Bolivia; il primario invece è chiamato in causa da una sua giovane specializzanda che lo accusa di attenzioni moleste tutt’altro che paterne; la quarantaduenne infine dovrà spiegare la scomparsa del marito (omicidio e occultamento del cadavere?) e nel farlo non potrà tacere nel suo resoconto l’eventuale movente: la scomparsa della passione dal loro matrimonio e la sua infedeltà. In particolare, la scomparsa di costui avviene in un frutteto e ciò rimanda al passo del Talmud cui Nevo si è palesemente ispirato (l’Eden del titolo del libro), quello in cui si narra dei 4 saggi che entrano nel Giardino della Conoscenza, ma soltanto quello che riesce a cogliere l’enigmatico ammonimento di Dio ne esce incolume.
Attraverso queste confessioni, redatte apparentemente senza reticenze, i tre personaggi vagabondano lungo i tre piani (ogni riferimento al precedente romanzo di Nevo è puramente voluto) della loro psiche: c’è la parte conscia della loro struttura freudiana che cerca di convincere l’accusa e i lettori della loro buonafede, quella inconscia che fa trapelare una loro eventuale malafede, fino ai segni e i sogni attraverso cui il loro subconscio riesce a liberare le angosce ingabbiate, illuminando per pochi istanti, come fulmini, i desideri segreti.
“Ho letto quanto scritto fin qui e leggendo mi sono reso conto che questi fogli contengono soprattutto quello che non mi sarà possibile raccontare alla commissione”, dice uno dei tre protagonisti, ma evidentemente anche per conto degli altri due.
Non vi svelerò qui se i tre riusciranno ad uscire incolumi dalle accuse, lo saprete leggendo il libro di Nevo, ma una cosa posso dirvela ed è una mia semplice deduzione: tutti e tre i protagonisti di Nevo metaforicamente si salvano, perché dai loro resoconti emerge che si sono anche loro arresi, come l’unico saggio che esce indenne dall’Eden del Talmud, alla consapevolezza che la conoscenza profonda delle cose è impossibile.
Come la verità sulla loro innocenza.
Angelo Novatzky
LEGGENDO PIPERNO

Stavolta non mi sono lasciato incantare da Alessandro Piperno: ho acquistato il suo ultimo libro, Di chi è la colpa, un paio di settimane fa e non l’ho divorato, infatti ho finito di leggerlo solo oggi. Con i suoi precedenti romanzi mi ero comportato come quei maschi alle prime armi che cedono troppo frettolosamente alle delizie dell’altro sesso. Stavolta ho saputo centellinare, mi sono imposto un numero massimo di pagine al giorno o meglio, siccome la scrittura di Piperno ha su di me un effetto ipnotico, soltanto una breve seduta quotidiana dallo psicoteraupeta; e arrivato all’ultima pagina ho avuto ulteriore conferma del perché sia considerato il Roth italiano (alcuni critici lo avvicinano più a Saul Bellow, ma siamo lì).
Come Roth, Piperno in questa ultima fatica letteraria ha creato un alter ego, un suo personale Nathan Zuckerman dietro cui nascondersi e attraverso cui parlare della storia che più lo ossessiona fin dal suo esordio: “la storia degli altri, che si rivela priva del significato che secondo noi dovrebbe avere e che assume invece un significato grottesco tanto siamo male attrezzati per discernere l’intimo lavorio e gli scopi invisibili degli altri”.
Ed eccolo dunque questo scrittore romano di origine per metà ebrea, immaginato da Piperno senza nome e forse senza fama, che raggiunta e superata la mezza età racconta le vicissitudini della sua vita a partire dalla solitaria infanzia e turbolenta adolescenza. Una storia ricca di imprevedibilità, come deve essere la storia che viene trasposta in ogni romanzo che si rispetti, ma che, se la si guarda un po’ più dall’alto senza indulgere nei dettagli, non è affatto dissimile da quella che viviamo tutti noi lettori (di Piperno). Soprattutto quelli che ogni tanto, tra l’ufficio e una partita di tennis, si fermano a riflettere, nel tepore del loro bagno borghese con le mattonelle color biscotto, sull’impostura dell’identità che è appunto riflessa da uno degli specchi gemelli. Ma mai disposti, una volta usciti dalla solitudine di quel bagno, ad accollarsi una pur minima colpa.
Angelo Novatzky
IL COLIBRI’ – Sandro Veronesi
Quando finisco un romanzo, mi chiedo quasi sempre quanto di autobiografico ci sia nel libro appena terminato, da cosa o chi abbia tratto ispirazione l’autore. Ho letto diversi libri di Sandro Veronesi perciò dalla trama del suo ultimo, Il Colibrì, che si è appena dipanata e risolta sotto i miei occhi, l’ho riconosciuto subito; dentro il romanzo ci ho ritrovato il motivo tipico di Veronesi, quello che, con diverse combinazioni di note, affiora sempre dalle sue corde. Ma non conoscendo la sua vita non sarei mai stato in grado di decifrare i richiami biografici e letterari introdotti nel racconto, se Veronesi non fosse stato così generosamente esplicito nelle pagine finali, quelle dei ringraziamenti, dove ha chiaramente descritto questi suoi “debiti” di ispirazione. Perciò è un piacere, che mitiga il dispiacere di aver ultimato questo romanzo familiare dove si racconta di più generazioni con al centro la vita di Marco, specialista in oculistica e oftalmologia, venire a sapere, a storia dei Carrera ormai conclusa, che il padre del protagonista de Il Colobrì abbia scritto sul frontespizio di un libro di fantascienza la stessa dedica che il padre di Veronesi appose, su un libro della medesima collezione, in clinica poco prima della nascita di Sandro, così come il padre di Marco aveva fatto per il figlio,…
che la descrizione del tentativo di suicidio della sorella di Marco, Irene, è stata adattata da una medesima descrizione presa, pari pari nella struttura (e nella sintassi dell’incipit e del finale), dal racconto di Beppe Fenoglio, Il Gorgo, …
che se un amico scrittore di Veronesi, Sergio Claudio Perroni, non fosse morto suicida poco prima che Il Colibrì fosse dato alle stampe, uno dei capitoli sarebbe stato privo di un episodio che omaggia la prosa poetica del Perroni stesso, ricalcando il brano di un racconto di quest’ultimo: Entro a volte nel tuo sonno,……..
che Marco Carrera aveva un amico jettatore con una professione simile a quella di Rosario Chiarchiaro, il protagonista de La patente di Pirandello, …
che la citazione Ubi nihil vales, ibi nihil velis nasce dalla passione di Veronesi per Samuel Beckett e forse dal suo sgomento per certi inferni della mente,…
che uno dei capitoli più belli del libro, Gli sguardi sono corpo, che rappresenta il testo dell’intervento di Carrera al convegno La percezione visiva tra occhio e cervello, è una rielaborzione di un articolo di Veronesi scritto per il settimanale del Corriere della Sera, La Lettura,…e così via.
Questi “debiti” dell’autore sono quasi un romanzo nel romanzo. Ci dicono quanto di Sandro Veronesi c’è in Marco Carrera e viceversa; il voler sfuggire, per esempio, a quel destino che è comune alla gazzella e al leone, condannati entrambi a correre sempre, per opposte ragioni. Il Colibrì vorrebbe restare fermo, un po’ come il protagonista di Caos Calmo, ma deve accettare il fatto che ciò non gli sarà concesso: la vita con il suo carico di fatalità e dolori trasforma sempre la più semplice sopravvivenza in un’affannosa impresa.
Angelo Novatzky
LA VITA AGRA – Luciano Bianciardi
A meno che uno non sia come quegli impettiti uomini d’affare che si radono tutte le sacrosante mattine per presentarsi perfetti, nonostante i 40 gradi all’ombra, a quelle interminabili riunioni di programma che sembrano essere pianificate proprio per congiurare contro l’estate (come scriveva saggiamente Claudio Magris nel suo La Storia non è finita), se non si appartiene, dicevo, a questa schiera di personaggi, che si è nutrita negli ultimi anni anche di scimmiottanti cospiratrici in tailleur grigio scuro e tacco 12, allora non si può non provare simpatia per gli anarchici.
Quando poi l’anarchia si incarna nella figura colta, ironica e profetica di Luciano Bianciardi, allora quella simpatia si tramuta in ammirazione.
Ne La Vita Agra, romanzo ampiamente autobiografico, il protagonista anarchico è proprio lui, Luciano Bianciardi, che lascia il paesotto natio, il suo modesto lavoro, la moglie ed il figlioletto e si trasferisce a Milano non per far fortuna al Nord, come tanti meridionali nell’Italia del boom economico degli anni 50 del secolo scorso, ma per far saltare in aria un grattacielo simbolo del progresso capitalistico e vendicare la morte sul lavoro di 43 minatori, sacrificati sull’altare di un fantomatico, secondo Bianciardi, miracolo italiano.
Il racconto del protagonista è spietato perché non fa sconti a nessuno e comprende la descrizione, con uno stile sarcastico e ustionante, di un popolo in piena metamorfosi antropologica, con una amara conclusione: il sistema sta creando il più ubbidiente degli eserciti, quello dei consumatori, alimentando nelle masse bisogni inconsistenti e speranze di una felicità fasulla.
Perciò va abbattuto, e Luciano così comincia a studiare i luoghi dove mettere in atto quell’eclatante dimostrazione sovversiva; nel mentre però deve sostenersi economicamente. Riuscirà a trovarsi un paio di occupazioni stabili, ma verrà licenziato perché la sua riluttanza ad ogni omologazione e la sua genuinità gli rendono insopportabile la convivenza ravvicinata con colleghi ipocriti e superiori arroganti. Troverà uno pseudo equilibrio soltanto quando il suo impiego (consulente come traduttore di testi di letteratura inglese) gli consentirà di lavorare da casa. La casa nella quale andrà a vivere con Anna, una donna emancipata e libertaria incontrata ad una manifestazione comunista a Milano e di cui finisce per innamorarsi perché molto più simile a lui di quanto lo sia la morigerata moglie Mara.
Il desiderio di Luciano di reindirizzare la Storia agendo sull’ interiore homine di chi non riconosce più come suo simile: “E un giorno saranno gli altri, gli attivisti, a ridursi in isola. Poche decine di longobardi febbrili aggrappati a rotelle e volani, con gli occhi iniettati di sangue. Forse non riusciremo mai a vincerli alla nostra causa, e resteranno lì a correre in circolo, a firmarsi l’un con l’altro cambiali, a esigerne il pagamento. Ridotti così in pochi, man mano che i meno saldi muoiono di infarto, formeranno un cerchio sempre più angusto, fino a scomparire da sé”
si affievolisce di fronte alla realtà, allo stress quotidiano di trovare lavoro a cottimo sufficiente per mantenere due case e di fronte a scrupoli che cominciano ad affiorare, nei confronti della moglie, della famiglia e delle tradizioni: “Continuava a badare alla casa e al bimbo: la spesa ogni mattina ……. poi le faccende di casa, una rimestata al tegame ogni tanto perché il riso non attacchi al fondo, il pranzo, rigovernare, a sera la passeggiatina col bimbo e a letto presto. Me la figuravo, appena ci pensassi, questa sua vita grigia e a suo modo eroica, fatta di mille gesti uguali e dimessi, fedele giorno per giorno alla scelta, al dovere, ai luoghi.
Non va avanti così la civiltà? Non è forse il continuo lavorio di queste formiche che tiene in piedi la vita dei popoli e ne ordisce il tessuto connettivo? Ed allora, era giusto che io, amico degli umili e dei diseredati, alleato per mia scelta della classe operaia, eversore in pectore di torracchioni, umiliassi e diseredassi questa donna?”
Il libro si conclude con una rassegnazione che non contempla nemmeno lo spiraglio di una terza via.
Una ventina di anni dopo la prima edizione de La vita agra, un altro Luciano, l’ingegnere scrittore De Crescenzo, pubblicherà Così parlò Bellavista, e farà dire al protagonista, il simpatico professore di filosofia di una delle città più anarchiche d’Europa e forse del mondo: “io credo che Napoli sia l’ultima possibilità che l’umanità ha di salvarsi”.
Chissà se i due Luciano si siano mai incontrati.
Angelo Novatzky
LA PAZIENTE SILENZIOSA – Alex Michaelides
“Solo gli amanti sono disposti a morire l’uno per l’altro, e non solamente gli uomini, anche le donne.”
Così scrive Platone nel Simposio, quando riferisce della leggenda mitologica narrata nell’Alcesti, la più antica delle tragedie di Euripide.
Alcesti è la devota e fiera moglie di Admeto, re di Tessaglia, al quale, seppur condannato a morte dagli Dei, viene concessa da Apollo una possibilità di salvezza: la sua vita sarà risparmiata a patto che un’altra persona si sacrifichi al posto suo.
Nessuno dei suoi amici e parenti – nemmeno i suoi anziani genitori – si offre per lo scambio, lo farà soltanto Alcesti con un atto inquadrato dalla critica letteraria di tutti i tempi come un gesto che ha a che fare più con l’ amore che con l’abnegazione di una donna di un’epoca risalente ad oltre 2000 anni fa.
L’eroismo di Alcesti commuove Apollo al punto che questi si adopera per il suo salvataggio: dopo un breve soggiorno all’oltretomba, infatti, alla donna è dato di ritornare tra i viventi, ma quando Admeto straziato la rivede, Alcesti non gli parla e rimane muta per tre giorni.
Alex Michaelides racconta nel suo romanzo, La Paziente Silenziosa, edito recentemente da Einaudi, la storia di Alicia Berenson, una donna che, per l’omicidio di suo marito, è rinchiusa in un ospedale psichiatrico e in un ostinato mutismo. Da quando è stata trovata in casa sua con accanto una pistola fumante ed il volto del coniuge crivellato da colpi esplosi da quella stessa pistola, Alicia non ha più proferito parola, nemmeno al suo processo, comunicando soltanto, se così si può dire, attraverso la pittura. Il suo unico dipinto dopo la tragedia è un autoritratto che la ritrae nuda di fronte ad una tela bianca e con in mano un pennello intinto nel sangue. La firma o il titolo consegnato al mistero da Alicia nell’angolo dell’autoritratto è emblematico: Alcesti.
Lo psicologo Theo Faber, affascinato dalla silenziosa fierezza di Alicia, cerca di raccogliere più informazioni possibili sul passato della donna, per poter capire le ragioni dell’assassinio e restituirle quantomeno la parola se non la libertà.
Da queste sue ricerche emerge non soltanto una selva di personaggi meschini, vicini e legati ad Alicia, la cui luce sinistra non era stata catturata durante le troppo frettolose indagini ufficiali, ma anche le ombre che la donna si porta dentro da quando bambina ha assistito alla morte della madre in un incidente stradale ed ascoltato di nascosto il padre confessare che avrebbe preferito la morte della figlia piuttosto che quello della moglie.
Quando Alicia tornerà a parlare, Theo sarà il suo primo sbalordito interlocutore, poi la verità che affiorerà nel finale di questo giallo psicologico lascerà anche voi senza parole.
Angelo Novatzky
L’ANIMALE CHE MI PORTO DENTRO – Francesco Piccolo –
La scienza negli ultimi decenni ha fatto passi da gigante nell’identificare i processi biologici che determinano l’identità di genere degli esseri umani. Ha scoperto, per esempio, il gene del cromosoma Y che alla sesta settimana di gestazione fa trasformare nel feto l’amorfo nucleo genitale in testicoli. Circa due settimane dopo, questi testicoli produrranno testosterone in quantità industriale ed il destino sarà segnato: quel feto assumerà tutte le caratteristiche, incluse le strutture cerebrali, tipiche del maschio.
Ma ciò è sufficiente per dire che proprio in quel momento, il momento della cablatura di quei circuiti neurali, nasce l’animale che mi porto dentro cui Francesco Piccolo dedica il suo ultimo libro?
Quei meccanismi della sesta e ottava settimana di vita in pancia della mamma, in realtà, non sono tutti e solo quelli che plasmano il cervello di un individuo definendone l’identità di genere, perché l’orientamento sessuale, l’attrazione sentimentale hanno ulteriori strutture biologiche su cui però la scienza oggi sa ancora molto poco. E’ proprio in questo vulnus, in questo vuoto di conoscenze che si insinua la piccola indagine antropologica di Piccolo, che si lancia con questa sua pseudo autobiografia semiseria in un’ardua ricerca delle cause del comportamento sociale del maschio. E’ come se Piccolo volesse indagare sul perché la Natura – insoddisfatta di ciò che ha fatto in quelle prime otto settimane – abbia lasciato alla Collettività il lavoro da completare, e sul come abbia marcato la base dell’istruzione di una seconda cablatura cerebrale, ancor oggi, come detto, tutta da decifrare.
Scrive piccolo: “Se sto parlando con una collega, con la mamma di un compagno di scuola di mio figlio, con la barista, con un’amica che mi confida i suoi segreti, riesco a tenere separate la parte complessa e quella semplice. So rispettare il grado professionale e di competenza della mia collega, concentrarmi sul lavoro e non essere allusivo………Ma dentro di me, sempre, sia che io lo voglia sia che non lo voglia, sempre, lavora un pensiero che sta sotto tutti questi: me la scoperei, come sarà nuda, però che culo, però che tette, sembra desiderosa….Se questo pensiero non riesco a tenerlo sotto, perché quella donna mi piace troppo, allora dentro quel dialogo professionale o familiare entra una piccola allusione, un debole tentativo di seduzione, una specie di sondaggio blando.”
L’esigenza di mostrarsi (soprattutto a sé stesso) virile non è l’unico atteggiamento che Piccolo ci confessa.
Scrive ancora: “L’animale che mi porto dentro vive dentro una persona che ha molti amici, che la notte non riesce ad addormentarsi se si è scordato di chiamare qualcuno, che sa ascoltare i problemi e cercare soluzioni, che ha cercato di aiutare………C’è però un lato del mio carattere che è nascosto, nascosto non per mia volontà, che viene fuori alla lunga….’L’animale che mi porto dentro è uno che vuole continuamente fare a botte, che ai semafori si incazza se qualcuno gli suona il clacson o gli taglia la strada, ma si incazza nel senso che insulta, dà cazzotti contro i finestrini e dice: scendi che ti ammazzo. E’ violento, sbatte il telefono in faccia, urla a due centimetri dalle persone, è arrogante, vuole che le cose vadano come dice lui, stringe le mandibole, digrigna i denti, chiude i pugni per dire: ora t’ammazzo, anche se sa che non bisogna farlo e neanche dirlo”
E’ questo il paradosso che Piccolo vuol far emergere: virilità, intesa come perenne caccia ad individui del sesso opposto, ed aggressività, intesa come esplicita manifestazione di forza, sono comportamenti legati a strutture ancestrali del maschio, ma sono strutture che la seconda cablatura, quella elaborata dalla collettività nella pubertà ed adolescenza, ha ambiguamente rafforzato. Un rafforzamento di cui il singolo individuo farebbe volentieri a meno. Perciò nel racconto Piccolo specchia la sua storia in quella di personaggi famosi della letteratura e del cinema: nel bambino del film cult Malizia, Nino, che si convince di desiderare, ma in realtà si innamora di Angelina (la bellissima Laura Antonelli), promessa sposa del padre vedovo; oppure in Sandokan che appende la sciabola al chiodo quando si accorge che è fatto più per abbandonarsi al romanticismo con Marianna piuttosto che sbranare tigri.
Eccola la tesi di Piccolo: il maschio, predisposto per essere virile ed aggressivo, vorrebbe essere tutt’altro ma Natura e Collettività lavorano contro questa sua aspirazione, lasciandolo in un limbo, un purgatorio da cui non riesce ad affrancarsi mai.
Angelo Novatzky
L’ESTATE DEL ’78 – Roberto Alajmo
Se non fosse che L’Estate del ’78 racconti di una storia tremendamente vera, quella vissuta dall’autore quando era un ragazzo negli anni ’70, potremmo quasi pensare che nello scrivere questo libro autobiografico Roberto Alajmo si sia lasciato ispirare dal celebre incipit di Anna Karenina. Non c’è dubbio, infatti, che la sua sia stata una famiglia infelice, infelice a modo suo in quel confuso periodo del secolo scorso; come è altrettanto certo però che l’urgenza di Alajmo oggi sia stata quella di chiudere un cerchio, di completare un’indagine sulla madre durata 40 anni.
Nei primi giorni del luglio del 1978 Roberto sta preparando gli orali dell’esame di maturità; due anni prima i suoi genitori si erano separati e la madre Elena aveva lasciato la famiglia, inclusi Roberto e Marcello, i figli avuti da Vittorio, suo primo e forse unico amore, trasferendosi in un altro appartamento non tanto lontano nella stessa città.
Forse sperava che la sua vita, continuando daccapo, potesse lasciarsi al capoverso precedente tutte le difficoltà incontrate fino ad allora. Le incomprensioni con i colleghi e i superiori (Elena era una maestra con idee rivoluzionarie per quell’epoca ed aspirazioni da dirigente scolastico), le incompatibilità con il marito di cui il piccolo Roberto era allora ignaro e perciò oggi Alajmo tenta di intercettare scrutando le pose seriose di mamma e papà nelle foto in bianco e nero che pure pubblica nel libro; quasi come se Roberto, nel timore di un suo senno del poi troppo coinvolto, volesse chiedere supporto allo sguardo più distaccato dei suoi lettori.
Con quell’allontanamento Elena sperava forse anche di nascondere meglio, come dei panni sporchi che non si possono lavare nemmeno più in famiglia, gli effetti delle crisi depressive che più di una volta l’avevano spinta alla disperazione del gesto estremo mancato.
Roberto incontra la madre per l’ultima volta proprio un tardo pomeriggio di quel principio di luglio del ’78; decide con i compagni di studio di interrompere la maratona sui libri e scendere per mangiare un gelato. Elena è là, seduta su un marciapiede come non si confà ad una donna matura e soprattutto ad una madre. Evidentemente la nuova casa, il nuovo fidanzato Antonio, le nuove velleità artistiche (era una pittrice dal talento discreto, dice oggi Alajmo) non riescono a colmare la necessità della donna, piu’ che l’esigenza, di ricevere attenzione dal prossimo e avere la meglio sugli scompensi neurologici. Elena dipendeva ormai da un farmaco, lo Spasmo Oberon, supposte che saranno dichiarate fuorilegge dal Ministero della Sanità troppo tardi, nel 1986.
Su cosa sia successo nel periodo che va da quel luglio del ’78, da quando Elena una volta rivisto il suo ragazzo lo libera dall’imbarazzo e gli lascia raggiungere i compagni del gelato, all’epilogo, cioè a quando 3 mesi dopo il suo corpo viene rinvenuto nel suo nuovo buio appartamento in una posizione con il palmo della mano che cerca di far leva sul pavimento (a significare un estremo e vano gesto di ripensamento?), Roberto può fare soltanto congetture.
A cosa sarebbero serviti in quei tre mesi eventuali aiuti morali ad Elena da parte delle persone a lei piu’ care?
E’ una domanda che Alajmo fa serpeggiare per tutto il racconto, ma è una domanda destinata a non ricevere risposta.
Come ogni famiglia infelice è infelice a modo suo, cosi’ ogni depresso sfugge ad ogni tipo di puntuale catalogazione: non si può sapere mai con esattezza quanto i fatti più o meno tristi di un’esistenza possano ingigantire i guasti di un cervello e viceversa, cioè come e quando i guasti in un cervello faranno precipitare gli eventi di un’esistenza.
Non ci resta allora che ribaltare la faccenda e provare a sorridere con l’ironia dello stesso Alajmo e la sua teoria sulla felicità:
‘Mi è successo sempre cosi’. Ogni volta vedevo il volto della felicità dal finestrino del treno e pensavo: ecco chi era! La felicità!….
Anche a voler tirare la maniglia del freno, si fermerebbe il treno su cui viaggio io, non quello su cui viaggia lei. Posso pure scendere o gettarmi dal treno, ma mi troverei da solo in mezzo alla campagna a guardare il culo della felicità che si allontana all’orizzonte…..
Da qui si ricavano le due Leggi Fondamentali della Felicità.
La Prima Legge: la felicità consiste nell’essere felici.
La Seconda legge: e saperlo mentre succede, però.’
Angelo Novatzky
RACCONTO DI UNO SCONOSCIUTO – Anton Cechov
Nel 1893, nella Russia dove imperano ancora gli zar ma dove sotterranei movimenti sovversivi stanno preparando il terreno alla madre di tutte le rivoluzioni, quella del 1917 che ha diviso e divide ancora il mondo in due ideologie, viene pubblicato Racconto di uno sconosciuto di Anton Cechov. Qualche mese dopo a Parigi all’università della Sorbona viene fondato il comitato olimpico con lo scopo di organizzare la prima Olimpiade dell’era moderna. In quei primi anni di giochi internazionali, i primi dati attendibili in nostro possesso riportano che il record mondiale relativo ai 100 metri piani è di 10 secondi e 60 centesimi. A piu’ di un secolo da quel tempo, Racconto di uno Sconosciuto è qui sulla mia scrivania mentre il suddetto record di velocità è oggi sotto i 9 secondi e 60 centesimi, 1 secondo meno rispetto a quello di cento anni fa.
Stepan, lo sconosciuto del racconto di Cechov, è un anarchico che per spiare le mosse di un influente boiardo di Stato riesce a farsi assumere come cameriere nella casa del figlio di quell’uomo potente, Orlov, anch’egli funzionario al servizio del potere autocratico zarista. La speranza è quella di carpire documenti e segreti di Stato, magari assistendo a riunioni e visite di esponenti di vertice del governo russo. Non sarà così perché Orlov, pur essendo organico al regime, è nella sostanza delle cose disinteressato alle faccende politiche e vive perlopiù godendosi la sua rendita di posizione, quella che sfrutta l’ignoranza e la fatica dei ceti più poveri e deboli della società. Stepan constata perciò che Orlov è sì una figura di spicco, ma di quella varia umanità che ogni giovedì sera, vincendo la propria innata indolenza, va a fargli visita per giocare a carte e magari finire in bellezza in un bordello vicino. Un’umanità che sembra uscita da un gabinetto ministeriale dei giorni nostri o anche, ammettiamolo con cechoviano realismo, da uno dei doppi servizi delle nostre case di oggi. Basta leggere il ritratto che Cechov fa di uno degli amici di Orlov, per capire quanto familiare possa esserci una persona del 1893:
‘Era segretario presso un grosso funzionario, con speciali deleghe, e non faceva nulla pur ricevendo uno stipendio elevato, soprattutto d’estate quando per lui inventavano incarichi fruttuosi. Era un arrivista fino al midollo, fino all’ultima goccia di sangue, ma di una specie volgare, poco sicuro di sé e basava la propria fortuna su una specie di elemosina. Per ottenere un’infima decorazione, o per essere citato dai giornali tra i partecipanti famosi a una cerimonia, era pronto a qualsiasi umiliazione, a qualunque bassezza, al più vile espediente.’
C’è un fatto che accade e sposta il piano di osservazione, e non solo di osservazione, di Stepan. Una donna dal nome impronunciabile, e che per semplicità chiameremo Maria, ha una tresca amorosa con Orlov, decide di lasciare il marito e di trasferirsi nella casa dell’ amante. Illudendosi che Orlov sia quello che non è, e cioè avulso da quel mondo di convenzioni ed ipocrisia che lei odia al pari della sua contemporanea nella finzione, la tolstoiana Anna Karenina, Maria è sinceramente innamorata di Orlov, ma pian piano quella casa comincia a diventare una prigione per i suoi sogni di libertà. Disturbato nelle sue flaccide abitudini, infatti, Orlov fa di tutto per liberarsi di Maria ed usa meschini stratagemmi per allontanarla definitivamente. Tutto ciò avviene sotto gli occhi di Stepan che per ammirazione e commiserazione finisce per innamorarsi della donna. Quando la situazione diventa insostenibile Stepan racconta a Maria i sotterfugi e la natura di Orlov, la convince e decidono di lasciare la casa ma prima di fuggire insieme, Stepan scrive una lettera dove svela la sua vera identità e rivela ad Orlov tutta la sua ripugnanza.
L’azione di spionaggio, nata per una specifica causa, trasformata dagli eventi in qualcosa che ha più a che fare con i sentimenti che con l’impegno sociale, prende nella fuga una piega inaspettata: il coraggio civile di Stepan si tramuta in desiderio di tranquillità domestica con Maria. La traiettoria della storia avrà un epilogo imprevisto e porterà i due protagonisti (Stepan ed Orlov) ad un ultimo faccia a faccia, con le due visioni dell’esistenza ancora lì a fronteggiarsi.
Stepan: La vita non ci è data che una sola volta; si dovrebbe viverla in un modo energico, sensato, bello. Si vorrebbe recitare una parte principale, partecipare alla Storia in modo tale che le generazioni future non fossero autorizzate a dire di ognuno: era una nullità.
Orlov: Cosa farci? Come impedirlo?
Racconto di uno sconosciuto è il racconto universale di chi pur lasciandosi distrarre dagli eventi della propria esistenza, sentimenti inclusi, e scoraggiare dalla lentezza del progresso civile e sociale dell’umanità, non abbandona l’idea che valga la pena lottare per migliorarsi, si trattasse pure di strappare al proprio primato un misero centesimo di secondo ogni secolo.
Perciò Cechov è stato e resterà per sempre sulle nostre scrivanie.
Angelo Novatzky
UNA QUESTIONE PRIVATA – Beppe Fenoglio
Conosco persone, cui confesso la mia vicinanza, che, quando si appassionano ad un romanzo, sono capaci di importunare l’autore se il racconto lascia in loro qualcosa d opaco a fine lettura. E se l’autore è scomparso, si mettono addirittura alla ricerca di documenti inediti o interviste rilasciate dallo scrittore all’epoca della stesura del libro.
So poco delle recensioni scritte nel corso degli anni sul romanzo di Beppe Fenoglio, Una Questione Privata, ma dopo aver letto il libro trovo azzeccatissimo il commento che fece tanti fa Italo Calvino:
‘E’ un libro assurdo, misterioso, in cui ciò che si insegue, si insegue per inseguire altro, e quest’altro per inseguire altro ancora e non si arriva al vero perché.’
Al suo editore, Livio Garzanti, che gli aveva commissionato un ‘libro grosso’ sulla guerra civile scoppiata in Italia dopo l’armistizio dell’8 settembre del 43, Fenoglio invia l’8 marzo del 1960 una lettera dove, per chiarire il ritardo e frenare l’impazienza del suo datore di lavoro, scrive:
‘Avevo già scritto 22 capitoli dei 30 previsti dall’impianto del romanzo e sarei stato in grado di consegnarle il manoscritto ‘tra non molti giorni’, come Lei scrive. Si trattava di una storia concedente larga parte di sé alla pura rievocazione storica, sia pure ad alto livello. D’improvviso ho mutato idea e linea. Mi saltò in mente una nuova storia, individuale, un intreccio romantico, non già sullo sfondo della guerra civile in Italia, ma nel fitto di detta guerra. Mi appassionò immediatamente e ancora mi appassiona. Mi appassiona infinitamente di più della storia primitiva ed è per questo che non ho fatto troppo sacrificio a cestinare i 22 capitoli già scritti’.
E la vicenda individuale che Fenoglio lascia intravedere nella lettera a Garzanti è proprio quella di Milton, nome di battaglia di un partigiano badogliano innamorato di Fulvia e grande amico di Giorgio, terzo lato di un triangolo amoroso da cui prende corpo la questione privata che si insinua fitta in quella pubblica della Resistenza.
Milton durante un pattugliamento nelle campagne nei pressi di Alba scorge tra la nebbia la villa abbondonata di Fulvia, la ragazza di cui è innamorato profondamente eppure verso la quale non si era ancora risolto di dichiararsi. Un momento quello che aveva rinviato, per incertezza ed opportunità, a quando sarebbero finite le battaglie fratricide che in quei mesi avevano trasformato quei luoghi in un teatro di odio e fango rosso. L’incontro che Milton fa in quella villa desolata con la vecchia governante di Fulvia, i sospetti che costei gli trasmette riguardo a contatti per niente platonici che sarebbero avvenuti negli ultimi mesi tra Giorgio, partigiano come Milton ma in un’altra divisione, e Fulvia cambiano i piani di Milton. Prioritario diventa infatti incontrarsi e chiarirsi con Giorgio, ma non può farlo perché viene a sapere che l’amico è stato catturato dal nemico fascista.
Tutto ciò che Milton farà da questo punto in poi, inclusa la ricerca di un prigioniero da scambiare, avrà lo scopo di salvare la pelle all’amico ed il fine di acquietare la propria gelosia, ma questo scopo e questo fine sono intrecciati al punto da non poter far scorgere la preponderanza dell’uno sull’altro.
Aveva ragione Calvino: la grandezza del romanzo è nella sua stessa opacità e ambiguità. Attraverso Milton e i suoi compagni di sventura, Fenoglio racconta l’epica della Resistenza, descrivendo il sacrificio di tanti italiani intenti a far trionfare una Verità ed una Giustizia piu’ grande di ciascuno di loro; ma a Fenoglio non interessa tanto celebrare quell’ epica piuttosto inseguire qualcos’altro, qualcosa che attiene al singolo individuo indipendentemente dal colore della divisa che indossa o dagli ideali sociali che sono custoditi sotto quella divisa. Qualcosa che ha che fare con le scelte, le scommesse e le responsabilità individuali e le conseguenze che esse hanno per sé e per gli altri. Quelle scelte che entrano nei fatti della Storia con la S maiuscola proprio come quest’ultima irrompe e influenza una semplice questione privata.
Se potessi, chiederei all’autore cosa fosse piu’ importante per Milton: la vittoria finale dei partigiani o l’amore per Fulvia?
Oggi Fenoglio mi invierebbe una mail e forse mi direbbe che la risposta è già contenuta nel libro, nei pensieri dichiarati da Milton:
‘Fulvia, sei lontana da me esattamente quanto lo è la nostra vittoria.’
Angelo Novatzky
IL GIARDINO DEI FINZI-CONTINI – Giorgio Bassani
Non credo che la piccola schiera di chi, tra voi, non ha ancora letto il capolavoro di Giorgio Bassani me ne vorrà se io, nel provare qui a raccontarlo brevemente, inizierò dalla fine:
‘La mia storia con Micol Finzi-Contini termina qui. E allora è bene che anche questo racconto abbia termine, ormai, se è vero che tutto quello che potrei aggiungervi non riguarderebbe più lei, ma, nel caso, soltanto me stesso. Di lei e dei suoi ho già detto quale sia stata la sorte……’.
Non è un mistero infatti, ma noto fin dalle prime pagine de Il Giardino dei Finzi- Contini, che la storia tra chi narra (di cui non si conoscerà mai il nome e perciò chiamerò Giorgio per i chiari richiami autobiografici all’autore ferrarese) e la bella, aristocratica ed enigmatica Micol è di quelle che i poeti spesso apostrofano con frasi del tipo ‘il fiore che non colsi’ o altre affettate e struggenti metafore. Ma chi volesse ridurre questo romanzo ad un racconto sentimentale, farebbe un torto alla propria intelligenza prima ancora che alla grandezza di Giorgio Bassani.
Una cosa è certa: quando starete lì per riporre il libro, dopo averlo letto, sullo scaffale della vostra libreria, verrete assediati da un desiderio che come me a stento riuscirete a placare. Come me forse correrete in auto, metterete in moto e imposterete il navigatore su questa destinazione: Corso Ercole I d’Este, Ferrara. E’ da lì che si estendeva e forse si estende ancora oggi la maestosa residenza dei Finzi Contini, con l’enorme villa e lo sconfinato giardino dove Micol accompagnava il timido Giorgio in quelle loro passeggiate romantiche. La distanza vi dissuaderà dall’intraprendere il viaggio per Ferrara ma esiterete un po’ in auto ancora per qualche minuto per immaginare la disincantata Micol mentre si rivolge al suo impacciato spasimante: ‘Possibile che tu sia così ignorante? L’avrai pure studiata al liceo un po’ di botanica?’.
Micol ed il fragile Alberto sono i rampolli della ricca famiglia dei Finzi contini; Giorgio, anch’egli ebreo, sebbene di piu’ umili origini, ed altri giovani universitari della Ferrara bene cominciano a frequentare quella casa alla vigilia della promulgazione in Italia delle leggi razziali, nel 1938. Giorgio a piu’ di 20 anni di distanza racconta quei mesi di assidua frequentazione e rivede Micol e quei suoi amici ebrei muoversi intorno al campo da tennis immerso nel giardino dove ogni pomeriggio si davano appuntamento per giocare e forse per trovare una zattera comune, mentre tutto intorno stava andando alla deriva.
L’impressione che si riceve dalle descrizioni di Bassani è che quei giovani fossero all’epoca di quegli incontri già quei fantasmi che poi effettivamente sono diventati 20 anni dopo, affiorando dalla memoria e dalla penna di Giorgio.
Le limitazioni della loro libertà, che Bassani fa emergere lentamente ma progressivamente nel romanzo, sono per quei giovani ebrei il presagio di un futuro che anche il più ottimista ed esagitato tra loro intravedeva vuoto se non proprio di morte. Privato di progettualità, ogni loro sforzo e disegno, anche solo laurearsi oppure innamorarsi per esempio, appariva senza speranza; avvertivano, e ciò rendeva il loro presente asfittico, l’impotenza che si palesa quando hai un enorme gigante che ti si para dinanzi a bloccarti il cammino e sta lì lì per schiacciarti con il suo piede peloso. Peloso come l’attitudine delle masse umane quando si uniformano e marciano all’unisono sospinti dal medesimo spirito dei tempi.
Giorgio è tra tutti il più vivo (il meno fantasma): prova a piegare la riluttanza di Micol e non si lascia sopraffare dagli eventi.
Eppure tanti anni dopo, quando scrive questo racconto, è sopraffatto dai ricordi:
‘Quanti anni sono passati da quel remoto pomeriggio di giugno? Più di trenta. Eppure se chiudo gli occhi, Micol Finzi Contini sta ancora là, affacciata al muro di cinta del suo giardino, che mi guarda e mi parla……..Entrambi ci fissavamo. Al di sopra della sua testa il cielo era azzurro e compatto, un caldo cielo già estivo senza la minima nube. Niente avrebbe potuto mutarlo, sembrava, e niente infatti l’ha mutato, almeno nella memoria‘.
Angelo Novatzky
VOI DUE SENZA DI ME – Emiliano Gucci
Sono tanti i modi con cui il destino può dividere due persone che si amano; anche se assoluto, quel loro amore è quotidianamente e capricciosamente in balia degli eventi. In Voi due senza di me, il destino, guidato dalla penna di Emiliano Gucci, infrange una regola di natura non scritta e non sempre rispettata, la regola che esigerebbe una giusta sequenza cronologica nei funerali e cioè in parole povere che siano i figli a seppellire i genitori.
Nell’antefatto di questo romanzo avviene il contrario, i due protagonisti del racconto, Michele e Marta, perdono il loro bambino e ciò fa naufragare il loro amore, ma – come se non bastasse – i contorni misteriosi di quella tragedia infliggono alla loro unione un colpo di grazia. La convinzione con la quale Marta si difende dall’accusa di avere in quel tragico evento colpe che vadano al di là della semplice sbadataggine è sì sufficiente per dissolvere i sospetti delle autorità e far chiudere le indagini su eventuali sue responsabilità penali, ma non tale da placare Michele nei giorni della tragedia né dare a se stessa una rassicurazione definitiva sulla propria assoluta innocenza.
Sarà questo il mistero che aleggerà per tutto il libro e vi spingerà a leggerlo ansiosamente fino all’ultima pagina. Il romanzo, però, non è solo capire se Marta ha commesso il più orrendo dei crimini, ma molto di più.
I 20 anni trascorsi dopo quel tragico episodio sono immortalati da Gucci in due giorni, distanti 10 anni l’uno dall’altro, nei quali i due protagonisti tenteranno a turno (prima Michele e poi, 10 anni dopo, Marta) di riattaccare le pagine strappate del calendario, cercando di ridisegnare un passato che però sembra non smettere mai di essergli ostile ed ignoto come il futuro, un ipotetico futuro che ciascuno dei due desidera, in maniera sfasata nel tempo, trascorrere ancora insieme all’altro.
Il racconto di questi due giorni avviene in una Firenze con condizioni climatiche da incanto: l’azzurro intenso del giorno in cui Michele cerca di convincere Marta che la storia che lei si è faticosamente costruita in quei 10 anni non ha nulla da spartire con il sentimento che li legava prima della tragedia, quell’azzurro – dicevo- copre ogni cosa come la neve che 10 anni dopo ostacola ed illumina l’analogo tentativo di Marta, diventata single mentre Michele, ora, è lui a rivendicare una felicità tranquilla altrove.
Ma la particolarità di questo romanzo è che il racconto di questi due giorni è affidato ad una voce narrante speciale, quella del bambino morto – il ‘me’ del titolo del libro – Il consueto narratore, che in genere nei romanzi tutto sa e tutto può, a maggior ragione qui, in una veste sovrannaturale, tutto sa (anche se è stato ucciso dalla madre) e tutto può (anche far ritornare insieme i propri genitori).
Vi riconoscerete un po’ nel dolore, nella rabbia, nella frustrazione e nella rassegnazione di Michele e Marta, farete il tifo per la loro ostinazione disposta a calpestare le persone e le storie nuove che il destino si è ingegnato di ricostruire in modo asincrono e fuori tempo massimo per ciascuno di essi, pur di riprendersi ciò che quello stesso destino si era accanito a togliere loro.
E capirete anche le parole del loro bambino-narratore, che scioglierà alla sua maniera, cioè alla maniera degli angeli, il mistero del loro passato ancor prima che Michele e Marta risolveranno quello sul proprio futuro.
Angelo Novatzky
L’ORDINE DEL TEMPO / Carlo Rovelli
Non so se riuscirete a leggere fino alla fine questa recensione, molto più probabile è che a circa metà del resoconto vi ritroverete ad arrovellarvi sulle conclusioni cui Carlo Rovelli nel suo L’ordine del tempo giunge. E questo sebbene l’autore sia dotato di pazienti capacità divulgatrici e utilizzi un linguaggio quasi completamente scevro della astrusa simbologia matematica. L’ordine del tempo è un saggio che mira essenzialmente a ribaltare la famosa frase che Dante, mi pare, pronunciò nel purgatorio: passa il tempo e l’uom non se ne avvede; la ben argomentata pretesa di Rovelli è infatti quella di farci digerire questa nuova molto meno intuitiva massima: NON passa il tempo e l’uom non se ne avvede.
Si parte dalle inoppugnabili e ormai anche sperimentalmente appurate scoperte di Einstein: il tempo misurato da due osservatori che si trovino piu’ o meno vicini ad una massa gravitazionale oppure viaggino a velocità diverse non è lo stesso. La diretta conseguenza di ciò è il taglio netto di una certezza che ci portiamo dentro da quando siamo bambini: la presenza del presente. Ponete il caso che vostra sorella abbia vinto un viaggio premio su Proxima B, un pianeta recentemente scoperto che dista ‘solo’ 4 anni luce dalla Terra. Ebbene – fidatevi – non c’è verso di sapere cosa stia facendo adesso. Anzi non ha nemmeno senso chiederselo perché l’adesso di vostra sorella non è lo stesso adesso vostro; è come se vostra sorella fosse in un altro mondo possibile. In termini ancora piu’ forti, perché dopo Einstein la meccanica quantistica ha fatto altri passettini verso la demolizione completa del Tempo, tutte le equazioni matematiche delle leggi fondamentali che conosciamo possono fare a meno della grandezza tempo. In 4 stupefacenti parole: il Tempo non esiste! Cioè non solo è vero che non esiste il presente – un unico presente per tutti – ma anche il fatto che non ha senso tracciare una freccia che indirizzi il passato verso il futuro, perché questa freccia non serve assolutamente a descrivere il funzionamento del mondo.
Ora, che io piccolo uomo possa credere – a dispetto di quanto hanno risolto le equazioni della meccanica quantistica – di essere in una bolla a crogiolarmi con malinconiche quanto inconsistenti citazioni tipo Panta Rei ci puo’ stare (del resto fino a ieri l’altro credevamo che tutto ruotasse intorno a noi!), ma che anche l’entropia e la sua crescita siano un’illusione sembra proprio troppo. In altre parole: io piccolo uomo sarei stato spinto a questa amara illusione che il tempo passa solo perché vedo che tutto procede verso un maggiore disordine (entropia) incluse le particelle del mio corpo destinate a disperdersi disordinate come ceneri. Le equazioni della meccanica quantistica possono non tener conto del tempo, ma il secondo principio della termodinamica (disordine/entropia sempre crescenti) sembra dire che il tempo c’è eccome ahinoi. Vogliamo per caso dire che il secondo principio della termodinamica che vede il tempo ha meno dignità scientifica della teoria a loop della meccanica quantistica che invece se ne infischia del tempo? Carlo Rovelli non ci pensa proprio a teorizzare una cosa simile, non potrebbe, ma prova nella parte finale del libro a coniugare questi due aspetti apparentemente contraddittori. La faccenda è un po’ complessa perciò provo a descrivervela con un’immagine: figuratevi tutto il mondo con le sue sterminate galassie come delle carte da gioco sospese a galleggiare nel vuoto e disposte e fluttuanti senza un ordine preciso. Immaginate che in un punticino di quest’immensità ci siamo noi cioè il nostro sistema fisico con la nostra galassia. Il nostro sistema fisico non interagisce con tutte le carte da gioco ma solo con alcune di esse e questa interazione è come se facesse emergere nella sfocata evidenza macroscopica un filo che lega tutte e solo le carte che ci riguardano. L’indistinta fluttuazioni di tutte le carte che rappresentano l’universo fa sì che il filo che lega quelle che riguardano il nostro sistema fisico cambi a pezzetti di colore: miliardi di anni fa era tutto di un colore il filo ora invece è un arlecchino perché il disordine è aumentato. Secondo Rovelli non si può dire nulla dell’entropia dell’universo, e se lo vogliamo dire allora anch’essa potrebbe fare a meno del tempo; ciò che emerge dall’interazione dell’universo con lo specifico sistema fisico che ci avvolge ha invece disordine crescente e come tale non poteva che originare noi, poveri uomini, con una coscienza, una memoria ed un orologio per misurare un disordine che è solo nostro. E forse di pochi altri nell’universo.
Angelo Novatzky
LA CORRISPONDENZA / Giuseppe Tornatore
Mi piace pensare che Antonio ed Olivia Sellerio siano andati da Giuseppe Tornatore a proporgli di riscrivere in chiave letteraria la sceneggiatura del suo ultimo film, La Corrispondenza, non perché siano semplicemente degli editori ‘accorti e intraprendenti’, come riferisce lo stesso Tornatore nella prefazione del libro che ha evidentemente accettato di scrivere a scene del film ultimate e già distribuite nelle sale cinematografiche italiane.
Mi piace pensare che Antonio ed Olivia Sellerio abbiano avuto, appena usciti da una di quelle sale, il mio stesso impulso a concedere un tempo supplementare alla magia creata dalla storia d’amore tra il professor Ed Phoerum e la sua allieva Amy Ryan: l’impulso di prolungare l’esistenza di due personaggi inventati proprio quando la luce dei proiettori stava smettendo di illuminare la loro storia.
Ed non è un professore comune, è un professore di astrofisica e cosmologia, ha maneggiato a lungo una materia complessa, fatta di quelle astruse equazioni matematiche che – tra increspature spazio-temporali, particelle di Dio e lontanissime supernove morte ma ancora visibili- sembrano voler dimostrare che la ragione umana è senza confini.
Ed è invece talmente padrone di quella materia che capisce, ormai attempato dopo aver costruito una famiglia con moglie e figli adorati oltre che una carriera di stima e apprezzamenti professionali, che è l’amore a non avere limiti spazio-temporali.
Così quando scopre di essersi ammalato di un tumore al cervello, Ed non lo rivela ad Amy e nel breve periodo che gli resta da vivere, tra incontri in albergo sempre piu’ rarefatti con l’oggetto – Amy- della sua tardiva scoperta dell’amore infinito, progetta e costruisce la sua esistenza da morto.
Ed imbastisce una trama di mail, video-messaggi, sms indirizzati ad Amy ma da far partire, con la complicità del suo avvocato e di una rete di amici e conoscenti, solo dopo la sua morte.
Amy, dal canto suo, non è una studentessa comune, imbrigliata com’è in un passato marchiato dalla tragedia della morte del padre, avvenuta in un incidente stradale quando alla guida dell’auto c’era proprio lei. Quel tragico episodio le ha lasciato un profondo senso di colpa con il quale riesce a convivere soltanto affrontando i rischi continui della professione -stuntman- che si è scelta per pagarsi gli studi, e forse riversando su Ed l’amore per il padre che il destino le ha mutilato.
Amy è talmente ignara della malattia di Ed che quando ad un seminario di astronomia, cui sta partecipando, viene diffusa e celebrata la morte del professor Ed Phoerum, lei ne rimane a dir poco stranita ed è -suo malgrado- trasportata in un’altra dimensione, un mondo parallelo e doppio da cui continua a ricevere concreti segnali di vita da Ed.
Amy comincia a rispondere ai video messaggi di Ed e ciò le serve per sciogliere i nodi del senso di colpa che la divora dentro, ma è la consapevolezza di una sincronia mancante ad emergere: quella luce trasmessa da una stella puntuale ma estinta non può riscaldare piu’.
E’ lo stesso Ed che lo intuisce congedandosi da quella dimensione senza dimensioni in cui si è ficcato:
‘Anche una supernova continua a ruotare nella sua orbita, anche se prima o poi, secoli o secondi che siano, giunge l’istante che la riporta al vuoto da cui è nata. E non voglio certo essere io quello che infrange la regola. Amore mio, penso perciò che non riuscirò piu’ ad inventarmi granché per continuare a farti compagnia’.
La Corrispondenza, libro o film che sia, affascina per il tema che tratta: quell’ineffabile analogia tra l’infinito che c’è dentro e sopra di noi.
Ambientato per lo piu’ ad Edimburgo, ‘i cui colori sono quelli bugiardi delle città troppo a Nord’, il racconto scritto purtroppo non riesce a restituire la visione poetica che Tornatore – da maestro qual è – riesce ad imprimere con le immagini.
Angelo Novatzky
LO STRANO CASO DEL LIBRO DI DE GIOVANNI – Angelo Novatzky
E’ scomparso il libro che stavo leggendo, In fondo al tuo cuore di Maurizio De Giovanni, lo scrittore recentemente balzato ai clamori della popolarità dopo la fortunata serie televisiva – I bastardi di Pizzofalcone – ispirata ai gialli da lui firmati. L’avevo lasciato lì sulla scrivania con il segnalibro sepolto sotto le 400 e passa pagine già lette a cui mancavano solo le ultime 20, ora nascoste chissà dove insieme al libro ed al nome del colpevole.
400 pagine davvero avvincenti, al punto che, man mano che procedevo nella lettura, riferivo a mia moglie, la tenevo aggiornata sullo sviluppo delle indagini. Mia moglie, dovete sapere, ha il fiuto per i gialli, è brava a comporre il puzzle e ad immaginare il tassello mancante che lo scrittore in genere volutamente rivela soltanto nelle ultime 20 pagine del libro; già, proprio le 20 pagine che mi mancavano per vedere il cerchio chiudersi sull’assassino.
Le ho raccontato della vittima, l’illustre professor Iovine, ginecologo, scaraventato giu’ dalla finestra del suo studio in un attico di un palazzo aristocratico di Napoli, circondato da quel dedalo di popolosi vicoli che scendono fino agli scogli di Mergellina. Abbiamo letto insieme quei brani del libro in cui De Giovanni descrive mirabilmente la linea di faglia del centro storico della città dove convivono aristocrazia e plebe, passioni semplici e deviate.
Che me l’abbia sottratto lei, mia moglie intendo, innamoratasi della storia e degli occhi verdi del bel tenebroso commissario Ricciardi? Forse l’aveva messo da parte soltanto, ma ora continuerà a leggerselo per conto suo, quando io non ci sono, semplicemente perché sono stato piuttosto brusco con lei:
‘Tu e la tua ossessione per l’ordine dove avete messo il mio libro?’
Ero arrivato al punto in cui tutta la ridda di sospettati era stata mostrata nel racconto. Il commissario Ricciardi, a cui De Giovanni cuce i panni del discreto indagatore dell’animo umano, aveva già interrogato tutti coloro che per un motivo o per un altro nutrivano un forte risentimento nei confronti del ginecologo: il guappo (detto il Lupo) che ha visto morire di parto la sua giovane moglie perché il professor Iovine era risultato irreperibile proprio nel momento del maggior bisogno: era tra le braccia di Sisinella, ex prostituta ora sua mantenuta. Quel ritardo del dottore nell’intervento era stato fatale ed il Lupo aveva giurato di fargliela pagare.
Inoltre Sisinella ha un fidanzato detto il pianino e se costui fosse stato colto da un raptus di gelosia scoprendo che l’ex prostituta non era poi tanto ex?
Senza parlare di quella torbida storia del passato di Iovine, su cui Ricciardi ed il suo fedele brigadiere Maione avevano messo le mani; storia che c’entrava con l’inizio della luminosa carriera di quel luminare: qualcosa di piu’ che antichi dissapori, in realtà vecchie infamie mai dimenticate e con strascichi ancora velenosi.
Su tutti questi personaggi De Giovanni cala il suo sguardo pietoso e fa in modo che essi appaiano al lettore non solo come potenziali colpevoli, ma anche come vittime delle proprie debolezze, descritti mentre sono trascinati nel turbinio delle loro fatali passioni.
Capite ora perché, dopo essere stato privato della tanto attesa conclusione, io abbia finito addirittura per sospettare di Valerio, il figlio dei nostri vicini di casa, a cui mia moglie dà lezioni di matematica ogni tanto. Non mi ha mai convinto quel brufoloso individuo che con la scusa della trigonometria si insinua in casa mia per rubare i miei libri.
Ma mentre farnetico, è lei, mia moglie, che risolve il caso, quando mi suggerisce, con un tono a lei inusuale ma congeniale al clima da guerra fredda instauratosi dopo le mie brusche insinuazioni, di telefonare alla signora Teresa, una vecchia amica di mia madre con un principio di demenza senile che ogni tanto viene a farci dei servizi in casa:
‘Se non vuoi andare a lavoro con le camicie stropicciate, chiamala perché Teresa non ci sta piu’ con la testa, lo sai, e si sarà dimenticata di venire’.
E’ la lampadina che si accende, il tassello mancante nascosto nel mucchio; non mi resta che convocare Teresa per un interrogatorio e scoprire dove sia si sia perduto il libro mio e la mente sua.
‘Pronto signora Teresa, sono Angelo, ma lei non doveva stare qua già da un pezzo?’
La sua risposta, fuori da ogni logica conseguenziale ma soprattutto da ogni realtà, ha il valore di una confessione:
‘ Angelo, è morto il ginecologo che ha aiutato tua madre a farti nascere, il dottor Iovine, è stato ucciso ed io so chi è l’assassino ‘.
CHIEDI ALLA POLVERE / JOHN FANTE
Quanti Arturo Bandini ci sono al mondo?
E quanti di questi riusciranno ad essere John Fante?
Sono queste le prime domande che vi farete, almeno per me è stato così, leggendo Chiedi alla polvere, il romanzo capolavoro dove un non ancora celebrato John Fante racconta la storia di Arturo Bandini, cioè di uno squattrinato ventenne con un’unica idea fissa in testa: quella di diventare lo scrittore famoso e acclamato che sarebbe effettivamente poi stato John Fante, dopo tanti anni di disagi e frustrazioni. Sembra un gioco di specchi e forse lo è, perché Fante in questo racconto parla proprio di sé e del suo ambizioso disegno.
Infatti Chiedi alla polvere non è soltanto il romanzo per eccellenza sul sogno americano, sulla smania di riscattare condizioni sociali talvolta inesorabilmente sfavorevoli ed ingiuste, ma è soprattutto un lampo che illumina quel desiderio di immortalità che urla senza voce dentro ciascuno di noi, un desiderio che il tempo ricopre giorno dopo giorno con strati sempre piu’ spessi di polvere, ma che non può eliminare mai del tutto.
E Bandini sa che c’è un solo modo per resistere e sconfiggere il deserto, quello di lasciare un’opera immortale ai posteri affinché essi possano continuare a farlo vivere anche quando non avrà piu’ voce. Perciò scrive a piu’ non posso Bandini, va in giro con scarpe consumate per cercare ispirazione, Bandini, mangia solo arance che compra con i pochi dollari che ha in tasca, e ruba latte e si pente, ma resiste, Bandini, anche a quei sensi di colpa che provengono dall’educazione cattolica di cui è fortemente impregnato. Va in giro, vive a pieni polmoni di giorno per scrivere la sera nelle stanzette degli alberghetti pagate con i soldi che la madre gli invia, facendo tanti sacrifici. Proprio durante questo vagabondaggio creativo Bandini incontra Camilla, la splendida cameriera messicana di cui si innamora perdutamente proprio come successe a Fante quando perse la testa per Marie, una vera cameriera di un bar di Los Angeles dove John visse negli anni ’30 del secolo scorso.
Ma Camilla non ricambia il sentimento di Bandini, non è in grado di accorgersi di quel soffio di infinito che Arturo sente e crede di rivolgerle; Camilla lo respinge lasciandosi inghiottire da quel deserto impassibile, sempre pronto a ricoprire e nascondere per sempre le impronte di chi non può sottrarvisi.
Arturo Bandini ce la fa, diventa famoso e tanti anni dopo, John Fante, ormai vecchio e malato, riceve nel Motion Picture Hospital dove è ricoverato la visita di un grande scrittore, Charles Bokowski, suo grande ammiratore e sponsor; Bukowski gli chiede cosa ne sia stato della femmina di Chiedi alla polvere e John gli risponde così: Quella puttana? Alla fine era lesbica.
Candida e cinica è la vita come la grande letteratura.
Angelo Novatzky
IL GRANDE ROMANZO AMERICANO DI PHILIP ROTH
Quando, qualche anno fa, lessi della decisione di Philip Roth di non pubblicare piu’ romanzi – I’m done with novels, anticipò ad un giornalista di una rivista francese – e quando, poco tempo dopo, l’ottantenne scrittore di Newark rivelò di voler uscire completamente dalla scena pubblica, il mio pensiero andò ad Ettore Majorana, il brillante fisico nucleare italiano della scuola di Enrico Fermi che negli anni ’30 del secolo scorso a 32 anni fece perdere le tracce di sé in un modo che ancor oggi lascia intatto ad aleggiare il mistero intorno alla sua figura e alla sua scomparsa.
Non dissi a nessuno di quel bizzarro accostamento: mi vergognavo di apparire come quel tizio che pur di non sembrare conformista sarebbe capace di rispondere ‘speck’ a chi gli chiedesse un’associazione per la parola ‘panino’.
Quando poi, qualche mese fa, è uscito nelle sale cinematografiche Pastorale Americana, mi sono fiondato in libreria a comprare l’omonimo libro da cui il film è stato tratto: il fascino (indiretto) delle immagini. Perché è stato attraverso le pagine del libro che ha vinto il premio Pulitzer nel 1997, e non dalle scene di una multisala, che la storia di questo giovane americano, buono, forte e (inizialmente) fortunato, dalla chioma tanto bionda da meritarsi il soprannome di Svedese, si è dipanata di fronte ai miei occhi. Occhi che (inizialmente) ridono vedendo come la vita sia stata così generosa nell’elargire allo Svedese -ragazzotto di origine ebrea ed idolo della sua cittadina- tutte quelle qualità interiori ed esteriori – qualità che da me, ‘ragazzotto’ occidentale, sono facilmente riconoscibili- che gli consentono di raggiungere ciò che ogni americano perbene insegue da quando scopre di avere una coscienza e una Costituzione: la felicità.
Ma quelle qualità vengono messe a dura prova da accadimenti che neppure le larghe e forti braccia dello Svedese possono sopportare, perché la forza, questa volta irriconoscibile, che sconvolge tutto nasce dalla mente di sua figlia dove, chissà come e perché, si sono annidati dei principi (da terrorista sovversiva prima e da hippy poi) che originano una logica diversa, coerente con quei principi ma che a contatto con quella radicata nel padre non può che far deflagrare il piccolo paradiso terrestre costruito dallo Svedese per sé e la sua famiglia.
Scrive Roth:
Ciò che lo Svedese trovava stupefacente era il modo in cui gli uomini sembravano esaurire la propria essenza…….Era come se, mentre la loro vita era ricca e piena, essi fossero, in segreto, stufi di se stessi e non vedessero l’ora di liberarsi del loro discernimento, della loro salute e di ogni senso delle proporzioni per passare all’altro io, il ‘vero’ io: che era uno stronzo detestabile e completamente illuso.
Sono parole queste, è un romanzo Pastorale Americana, di chi sta andando verso il nucleo di ogni cosa e sa immaginare anche cosa ci sia dentro. Meglio lasciar perdere, allora.
Come Majorana.
Angelo Novatzky
DOVE LA STORIA FINISCE / ALESSANDRO PIPERNO
Ogni volta che si arriva alla fine di un libro di Alessandro Piperno (potremmo dire in questo caso: quando si arriva dove la storia finisce, parafrasando il titolo della sua ultima opera) non si può non constatare che l’autore abbia raggiunto il suo scopo, abbia centrato quello che probabilmente è il principale obiettivo che si prefigge ogni volta che comincia un suo romanzo. Qualche anno fa in un interessante saggio (Pubblici Infortuni) lo stesso Piperno proponeva un divertente parallelo tra vite reali e finzioni letterarie, evidenziando come fosse facile e frequente che esse possano intersecarsi a vicenda o anche riflettersi in un gioco infinito di specchi. La simbiosi – si scriveva nel saggio – si estende anche ad una caratteristica che hanno in genere i protagonisti dei romanzi: quella di restare cristallizzati nel tempo, impossibilitati a ribellarsi alla sorte che lo scrittore ha ordito per loro, rendendoli sì immortali ma sempre uguali a sé stessi.
Prendete la Monaca di Monza, per esempio: una figura davvero esistita, condannata ad essere murata viva per una decina di anni da un giudice mortale per le malefatte compiute dalla reproba in combutta con il suo scellerato concubino. La pena espiata è stato niente al confronto di un’altra condanna, questa volta comminatale da uno scrittore immortale, con una sentenza lunga 3 parole, quelle 3 parole che risuoneranno fino al giorno del Giudizio: la sventurata rispose.
Ma senza scomodare persone o personaggi come la Monaca di Monza, anche il sottoscritto e voi che mi state leggendo siamo come cristallizzati (ed è questo l’ulteriore spunto di quel saggio di Piperno) nell’impossibilità tecnica di somigliare ad altro che a noi stessi.
Perciò, tornando a Dove la storia finisce, il protagonista Matteo, stretto nell’imbuto dei debiti e dei creditori, non può far altro che scappare dalle sue responsabilità abbandonando Roma e la sua famiglia, ubbidendo a ciò che gli impongono il suo superficiale carattere e la sua disordinata indole. Anche Federica, sua moglie, non riesce a rinunciare ad un amore sbilanciato e lontano e aspetta per sedici anni il ritorno del marito prodigo, ritorno che avverrà senza la minima traccia di rinsavimento da parte di Matteo. Federica, fedele a sé stessa, continua a non avanzare pretese, se non nei suoi sogni, perché quel guazzabuglio della sua natura le impedisce di cambiare rotta. E’ così dicasi per gli altri personaggi psicanalizzati così bene da Piperno che alla fine il lettore non può far altro che comprendere e giustificare le scelte di ciascuno, partecipando all’ineluttabilità dei loro destini.
Parteciperà anche quando su quelle storie ordinarie, perturbate nel loro quotidiano come gli stagni lo sono dai sassi, si infrangerà l’onda anomala della Storia, del tutto imprevista nel recinto di uno stagno.
Ma piu’ non posso dirvi.
Solo questo: leggere Piperno è come leggere Roth, Flaubert, Nabokov, Tolstoj, Proust, tutti in un solo libro.
Angelo Novatzky
IL LIBRO DEI BALTIMORE – JOEL DICKER
Quando si finisce di leggere un capolavoro assoluto come L’insostenibile leggerezza dell’essere inizia un periodo destabilizzante: nessun nuovo romanzo sembra all’altezza del precedente e si è quasi risucchiati dall’apatia. Si può arrivare anche a perdere tutte le speranze: ‘ è finito tutto, nulla potrà piiù interessarmi come prima’.
Una sensazione simile a quando si chiude la storia d’amore con Miss Universo: chi di noi non è mai stato insieme ad una Miss Universo, almeno una volta nella sua vita, e chi di noi non si è mai sentito dire, nel pieno dello sconforto, che avrebbe presto trovato una donna migliore, piu’ bella (dentro)?
Ma poi dopo un periodo di vagabondaggio, la vita continua e si finisce per posare gli occhi su altro, ci si sorprende a sfogliare distrattamente libri per strada su bancarelle improvvisate e a leggere (ancora) svogliatamente quarti di copertine di romanzi in accoglienti librerie.
E quando meno te l’aspetti, ecco l’amore che ritorna, attraverso le parole di un folgorante incipit, questo:
‘Io sono lo scrittore. E’ così che mi chiamano tutti. I miei amici, i miei genitori, i miei parenti e anche le persone che non conosco e che tuttavia mi riconoscono in un luogo pubblico e mi dicono: Lei non è quello scrittore? ………Scrivere un libro è come aprire una colonia estiva. La tua vita, in genere solitaria e tranquilla, viene improvvisamente scombussolata da una moltitudine di personaggi che un giorno giungono senza preavviso e ti stravolgono l’esistenza. Arrivano una mattina eccitati per il ruolo che hanno ottenuto. E tu devi rassegnarti, devi occupartene, devi dargli da mangiare, devi ospitarli. Sei responsabile di tutto. Perché tu sei, appunto, lo scrittore.’
Io, invece, sono il lettore e vi dico che se non fosse stato per questo libro di Joel Dicker, Il Libro dei Baltimore, acquistato dopo aver letto il suo incipit qui sopra sotto gli occhi di una spazientita commessa, erroneamente convinta di trovarsi di fronte all’ennesimo scroccone, oggi sarei ancora nel pantano del post Milan Kundera. Occorreva per sbloccarmi, ed è arrivato al momento giusto, proprio un romanzo che avesse il suo punto di forza nella struttura.
Dicker infatti attraverso la narrazione fatta dal personaggio principale, Marcus Goldman, che è nella finzione anch’egli come Dicker un famoso scrittore, imbastisce la storia – lunga piu’ di 30 anni – dell’intera famiglia Goldman costringendo il lettore ad inseguire due racconti: Il suo (di Dicker) su Marcus adolescente ed universitario e quello che Marcus stesso sta, come dire, di fatto scrivendo per conto suo, fondendo gli accadimenti del passato con quelli che sta vivendo e raccontando nel presente. Due racconti paralleli che si intrecciano ogni volta che Markus adulto rilegge, o meglio riscrive, con le consapevolezze di oggi, le sensazioni e le convinzioni errate provate dal Markus ragazzino.
E’ un racconto molto americano, sebbene Dicker sia un giovanissimo scrittore svizzero, sul talento, sul successo inseguito da molti e raggiunto da pochi e proprio per questo all’origine di dinamiche sociali e famigliari conflittuali, ben note e ben descritte dall’autore in questo romanzo.
Perché in fondo chi di noi non hai mai coltivato il sogno di stringere tra le braccia Miss Universo, almeno una volta nella vita?
Angelo Novatzky
L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELL’ESSERE – Milan Kundera
Chissà se questo bel blog letterario ci sarà ancora fra 25 anni; chissà se si potrà continuare a consultarlo in rete anche nel caso in cui non venisse alimentato per lungo tempo. Sulla morte dei blog non si sa ancora molto; molto probabile che rimangano lì dove non si sa dove siano, fermi come quei vecchi orologi meccanici alla cui molla interna una mano pietosa ha smesso di dare la ricarica. Se per esempio e per assurdo questo blog ci fosse stato 25 anni fa, io ci avrei lasciato sopra le mie impressioni dopo la lettura de L’insostenibile leggerezza dell’essere, così a distanza di un quarto di secolo avrei potuto confrontarle con quelle di oggi.
Dietrologie!
Nelle sbilanciate storie d’amore delle due coppie protagoniste (Tomas&Tereza e Franz&Sabina) io per chi parteggiai 25 anni fa? Preferii allora la leggerezza di Tomas e Sabina che vogliono sfuggire a quella legge (non) scritta secondo la quale è profondo soltanto l’amore fedele, costante ed ufficiale oppure mi lasciai incantare della debolezza sentimentale di Tereza e Franz?
Ad essere onesti non lo ricordo piu’.
Incerta è anche la seguente questione: oggi che rileggo dopo 25 anni il capolavoro di Milan Kundera, la mia anima è piu’ leggera o pesante di allora?
E di quanta ipocrisia si è vestita o spogliata?
Come direbbe l’autore: vedere i bambini correre sul prato fa spuntare due lacrime di commozione. La prima lacrima dice: come sono belli i bambini che corrono sui prati; la seconda lacrima dice come è bello essere commossi insieme a tutta l’umanità alla vista dei bambini che corrono sui prati. Ecco, quale delle mie due lacrime pesa oggi di piu’ rispetto a quelle di 25 anni fa?
Una scheggia di memoria mi dice però che allora (come oggi) ero d’accordo con Kundera: senza l’esperienza di una vita precedente, le decisioni che prendiamo nell’unica esistenza che ci è concessa di affrontare, le decisioni importanti, quelle che coinvolgono la nostra insostenibile leggerezza dell’essere, sono come se avessero le loro fondamenta poggiate nelle sabbie mobili. Non sapremo mai se scegliendo B al posto di A le cose sarebbero andate meglio o peggio. Perciò come Tomas (che era riuscito a scappare a Zurigo mentre i carrarmati sovietici invadevano Praga) decide di tornare a casa ubbidendo all’imperativo morale di proteggere la sua amata e sancendo la rovina della sua vita sociale (verrà perseguitato dal regime) così Sabina rinuncia all’amore di Franz (che per lei ha lasciato sua moglie) e termina i suoi giorni con l’effimera aspirazione ad avere una propria idilliaca famiglia.
Se entrambi avessero fatto scelte diametralmente opposte, quanta infelicità si sarebbero evitati?
Si accettano ipotesi.
Angelo Novatzky
LA SPOSA GIOVANE – ALESSANDRO BARICCO
Se fosse possibile, La Sposa Giovane di Alessandro Baricco dovrebbe essere letto mentre si vaga in una fase di dormiveglia cioè quando la mente perde – prima di cadere nel mondo dei sogni – o non ha ancora riacquistato – dopo un sonno profondo – la ferma capacità di distinguere la normalità dalla stranezza, l’ordinario dall’assurdo.
Così forse si apprezzerebbero meglio le atmosfere sfocate in cui Baricco fa muovere le tremolanti sagome dei suoi personaggi senza nome: il Padre, la Madre, la Figlia e lo Zio sono infatti gli imprecisati componenti di una bizzarra e ricca famiglia che accoglie nella sua sfarzosa casa in un’imprecisata campagna italiana l’enigmatica giovane promessa sposa del loro altrettanto enigmatico Figlio.
Quello che questa squinternata famiglia soprattutto mostra ai disorientati lettori è il suo essere votata all’ottimismo perché convinta in toto – anche l’esatto Modesto, il loro maggiordomo, lo è – che nelle ripetizioni dei gesti risieda la formula per sconfiggere il disordine del mondo e per tenere lontana la morte che da generazioni essi identificano con il buio della notte; la identificano non soltanto in modo simbolico, visto che tutti i loro antenati sono morti di notte.
La convinzione di poter dare attraverso le consuetudini un senso al niente è chiara proprio nelle parole di Modesto che di fronte allo stupore della Sposa Giovane, meravigliatasi della sua abnegazione nella ricerca di comportamenti perfetti, seraficamente le risponde:
‘mi esonera dal cercare altre finalità ai miei gesti. Non devo stare a chiedermi ogni giorno perché vivo.’
Nell’attesa che il Figlio ritorni da un lungo viaggio per lavoro in Inghilterra e mantenga la promessa di matrimonio, i personaggi del romanzo risvegliano verità seppellite dentro di loro e, forse proprio perché cominciano a temere che si tratti di una attesa vana, raggiungono la sconsolante consapevolezza della evanescenza degli uomini e delle cose. L’assenza di punti fermi è quanto il narratore-ideatore del racconto sembra voler avvalorare intersecando le sue personali vicende esistenziali a quelle dei protagonisti della storia. Infatti in una delle sue tante incursioni nel romanzo scrive:
‘Il fatto è che alcuni scrivono libri, altri li leggono: sa Dio chi è nella posizione migliore per capirci qualcosa……Manca un pezzo a tutti e raramente l’incantesimo si chiude.’
Bel romanzo!
Angelo Novatzky
LA SCOPERTA DELL’AMORE NEL ROMANZO DI MISSIROLI – Angelo Novatzky
Forse la bellezza di Atti osceni in luogo privato può essere spiegata con una tecnica matematica, simile a quella che l’autore, Marco Missiroli, utilizza in questo suo romanzo: Y=C x SC + D, la formula per calcolare la resistenza alle tentazioni. Per spiegarla occorre però un breve antefatto.
Il racconto di Missiroli ripercorre le tappe esistenziali del protagonista, Libero Marsell: dal trauma infantile di quando scorge la madre accovacciata nella camera da letto dei suoi genitori ma con accanto Emmanuel, il migliore amico di suo padre, alla liberazione dai suoi demoni, raggiunta solo dopo un percorso sentimentale caotico, costellato appunto di atti osceni in luoghi privati.
L’opportunità di mettere ordine nella sua vita viene offerta a Libero dall’incontro con la milanese Anna, dopo le delusioni patite in terra parigina con la sconvolgente Lunette, il palliativo sentimentale rappresentato da Frida, appena riparato nella città meneghina, e le tante avventure erotiche segnate come tacche sul bancone della taverna dove ha trovato lavoro, zona Navigli, per sostenersi economicamente. C’è un ostacolo non da poco però: Anna è la fidanzata di uno dei suoi migliori amici e lui, ricordando le sofferenze del padre, vuole evitarsi il destino del carnefice, quello che era stato di Emmanuel, nel frattempo diventato il compagno di vita della madre. Ecco allora la legge matematica che Libero cerca di osservare: “la resistenza alle tentazioni (Y) è il risultato della costanza (C) moltiplicata per un ipotetico senso di colpa (SC) + una serie di distrazioni (D) che vanno dosate al momento giusto”.
Dovrete leggere il libro per sapere se Libero Marsell riuscirà a farsi tornare l’equazione, quello che mi preme sottolineare qui è un’altra formula: B = AD + EP. Cioè la bellezza di un romanzo (B) è la somma tra il “dilettantesco” amore per la letteratura (AD) e l’ equilibrio “professionistico” (EP) nella scrittura.
Occorre una spiegazione per evitare fraintendimenti.
L’amore per la letteratura è quella dimostrata dalla voce narrante del romanzo, Libero Marsell alias Marco Missiroli, perché Atti osceni in luogo privato è trapuntato di rimandi e citazioni a romanzi di grandi autori del passato (Lo straniero di Camus e Il deserto dei tartari di Buzzati fra i tanti). Con dilettantesco voglio intendere la modalità con cui questi grandi romanzi sono stati probabilmente letti, per diletto e per puro amore della letteratura, senza una qualsiasi esigenza professorale. Il mestiere della critica, come in tanti altri ambiti, imbriglia l’originalità.
Ma senza l’ EP si resta soltanto grandi lettori, invece Missiroli dimostra in questo romanzo di saper maneggiare una materia delicata con equilibrio. La perizia gli consente di spingersi oltre per rispettare la verità del racconto dei fatti, senza sconfinare mai nella ricerca della morbosità del lettore.
Chapeau, Messieur Missirolì.
LA CADUTA – Albert Camus
Sono sempre stato convinto di una cosa: per quanto ordinaria possa essere la vita di ciascuno di noi, essa contiene sempre punti di singolarità tali che sarebbe possibile trarne un affascinante romanzo; non necessitano fatti eclatanti o eventi straordinari per ricavare un racconto intrigante dalla nostra esistenza, occorre solo un narratore intelligente e coinvolgente che sappia rendere interessante e piacevole la lettura o l’ascolto.
E’ quello che accade in questo breve ma denso racconto – La Caduta di Albert Camus- dove l’autore lascia che Clamence narri la parabola della sua vita, la quale, da piena di soddisfazioni private e professionali qual è (è un brillante avvocato nella sfavillante Parigi), si trasforma pian piano, per sua scelta, nel negativo di una foto a colori. Come gli avventori incontrati nel Mexico City, il bar di quart’ordine di Amsterdam dove ora l’avvocato “esercita” la sua nuova più misera professione, rimangono senza fiatare nell’ ascoltare il solitario monologo di Clamence , così noi, lettori di Camus, stringiamo tra le mani il suo libriccino, per cercare di capire in silenzio i contorni di quella caduta.
Anche nelle vite normali c’è sempre un fatto specifico – sebbene non evidentemente o apparentemente determinante- che imprime un’accelerazione verso una scelta definitiva, e Clamence lo individua per lui nella sera in cui su un ponte della Senna, deserto per l’ora e le condizioni climatiche, ha la netta sensazione che in un punto subito dopo il suo passaggio si sia consumato il suicidio di una giovane donna; non torna dietro a controllare Clamence, abituato com’è a farsi scivolare tutto addosso, ad aiutare solo in presenza di pubblico, così procede nella sua ignavia, attiva involontariamente il meccanismo della rimozione e sembra dimenticare, come spesso tutti facciamo quando accade qualcosa che non intacca e minaccia la sfera più prossima a noi.
Ma un interruttore dentro irreversibilmente è già scattato.
E così proprio lui che aveva sempre accettato il più o meno esplicito patto sociale che vuole gli individui lottare per primeggiare, che aveva sempre agito in maniera da farsi rimbalzare addosso i giudizi dei suoi simili, proprio lui che per fortuna (una salute di ferro) e per merito (un’intelligenza coltivata con studi e letture erudite) era riuscito così bene nell’impresa di apparire il migliore, ora si scopre a sentire delle risate di scherno che arrivano non dal prossimo ma dal suo inconscio: il suo io io io, che riecheggiava illuso nelle sue arringhe vincenti, comincia a ribellarsi – per dirla con Pirandello- alla sua maschera e Clamence finisce per vivere con un unico scopo: raccontare la sua storia al maggior numero di persone affinché costoro diventino suoi adepti.
Sta proprio in questo ultimo passaggio il doppio livello di lettura del racconto, la sofisticata dimostrazione per assurdo di Camus: la vera caduta non sta nell’aver rinunciato francescanamente all’egocentrismo ed al narcisismo, ma l’essere arrivati al punto di non ritorno, quello dove l’oggetto del desiderio sembra aver cambiato spoglie ma in realtà è rimasto lo stesso: marcare la propria supremazia sugli altri. Un desiderio istintivo, naturale, prima che sociale.
Angelo Novatzky
LOLITA – VLADIMIR NABOKOV
Qualche settimana fa è stato pubblicato su una rivista letteraria un articolo su Nabokov e sul suo romanzo più famoso, Lolita.
L’autore dell’articolo riferisce del pressing cui lo scrittore russo venne periodicamente sottoposto, quando era ancora in vita, da giornalisti ed ammiratori, i quali volevano estorcergli una risposta che Nabokov invece elargi’ sempre in maniera sarcastica ed evasiva: volevano sapere cosa l’avesse spinto o ispirato a scrivere Lolita.
Si sarebbero aspettati forse un’ammissione: ebbene sì, signori, in qualità di inguaribile narcisista volevo provocare e far parlare di me cosi ho utilizzato il piu’ subdolo dei mezzucci editoriali e il più scabroso degli argomenti, la pedofilia; oppure qualcuno forse sperava addirittura in una tardiva confessione: lo ammetto, il romanzo è un po’ autobiografico perché quelli di Humbert Humbert sono anche i miei più reconditi desideri. Nessuna traccia di entrambe – ammissione o confessione- è stata mai trovata, nemmeno in qualche nascosto memoriale postumo dell’illustre scrittore.
Amen.
Solleticato però da questo articolo e da questo mistero, ho voluto guardare la faccenda da un’ottica diversa e ho fatto un esperimento: ho chiesto ad un mio amico che ha una figlia di 11 anni se avesse letto in passato Lolita. Quando mi ha risposto che sapeva più o meno di cosa trattasse il romanzo, ma no, non aveva mai avuto tra le mani questo libro scandaloso, allora ho capito che era la persona giusta per ciò che volevo appurare e mi sono offerto di prestargli la mia copia di Lolita -Adelphi Editore- con la promessa di farmi avere, quando con calma avesse finito di leggerlo, le sue prime impressioni.
Le ho appena ricevute via mail e le pubblico qui di seguito senza cambiare una virgola, lasciando persino un refuso ortografico sfuggito al mio amico distratto.
“Caro Angelo, appena ci vediamo devo renderti Lolita che ho finito di leggeri, ma vorrei proprio non farlo anzi ti confesso che ho finito la settimana scorsa e nei giorni seguenti sono tornato a riaprirlo per leggere di nuovo qualche parte del racconto su cui mi sembrava di essere stato troppo frettoloso.
Ipnotizzato, questa è la parola corretta, sono stato ipnotizzato dalla prosa di Nabokov che su di me ha avuto l’effetto di una sinfonia di Beethoven. Ho capito perché mi hai chiesto di leggerlo e non voglio eludere assolutamente la tua malcelata curiosità: la bellezza della scrittura che in molti tratti diventa lirica ha offuscato completamente la ripulsa che puo’ venir fuori da uno come me se pensa che la propria figlioletta possa cadere preda di una passione malata simile a quella provata da Humbert.
Credo che Nabokov puntasse proprio a questo: dimostrare che ci può essere bellezza ovunque, anche nelle parole pronunciate da un insulso pedofilo.
Comprerò una copia per me. Ciao.”
Ecco, il mio amico forse ha dato la risposta che Nabokov avrebbe voluto dire a quei giornalisti; ma sarebbe apparso immodesto, e questo errore i geni non lo commettono mai.
Angelo Novatzky
GIUDA – AMOS OZ
Come si può sintetizzare in una manciata di righe questo romanzo di Amos Oz? Come posso convincervi a leggere Giuda e mostrarvi che è un capolavoro? Forse seguendo lo stesso approccio coinvolgente dell’autore che nella parte iniziale del libro fa in modo che il protagonista Shemuel, un barbuto ragazzotto israeliano alle prese con una crisi esistenziale ai limiti della depressione, si lasci convincere da un evento casuale ad una pausa di riflessione prima di abbandonare definitivamente gli studi di scienze umane con la tesi di laurea incompiuta. Infatti proprio mentre sta per andarsene da quella città senza tempo che è Gerusalemme, travolto dalla caduta degli ideali (gli orrori staliniani del socialismo reale che lo allontanano dal gruppo politico di appartenenza ) e soccombendo alle sfortune della giovinezza (una salute cagionevole e la fidanzata che lo lascia sposando un idrologo), Shemuel legge nella bacheca dell’università l’avviso di un’offerta di lavoro vergato da una mano femminile (che si scoprirà essere dell’enigmatica e affascinante Atalia). Dovrà fare compagnia ad un anziano signore invalido (il signor Wald) per 6 ore al giorno semplicemente intrattenendolo con discussioni sui massimi sistemi: quanto basta per convincere anche noi a non abbandonare l’idea di sapere dove i due andranno a parare e se la ragione (Shemuel, Wald) finirà per impastarsi con la passione (Shemuel, Atalia). La tesi di laurea di Shemuel, Gesù nella prospettiva ebraica, e le analisi sul cristianesimo di diversi storici ebrei di varie epoche, finanche contemporanei del Messia, sono il pretesto delle conversazioni che il vecchio invalido disincantato e il giovane badante idealista intrattengono, spesso palleggiandosi utopia e realismo. Nelle loro discussioni, i due devono arrendersi alla constatazione che gli uomini si dividono quando, risalendo lungo i nessi della razionalità, trovano un anello mancante che spesso rimpiazzano con il dogma della propria fede. Pur ammettendo che tutto obbedisca a necessità, perché – sembra chiedere il vecchio invalido Wald a Darwin (il teorico della selezione naturale)- c’è stata la necessità della vista, degli occhi; perché la luce può o deve essere la causa della vista per un cieco che, conoscendo solo il buio, potrebbe fare a meno della luce e della vista stessa? E ancora più su: perché la necessità della vita in un mondo pietrificato e inanimato? Anche lasciandosi lo spiraglio logico rappresentato dal caso, sembra che per Wald sia inconsistente la laconica spiegazione fornita dalla scienza: qualcosa avremmo dovuto pur essere, una forma avremmo dovuto pur assumerla. Come ineffabile sembra essere una possibile risposta a quest’altra domanda fondamentale, insita nella coscienza sociale, che il vecchio si pone: si può dire che gli uomini nascano tutti uguali? In base alla risposta che si dà, si vorrà piegare il legno storto oppure se ne vorrà assecondare la convessità; e da qui perciò guerre, odio, sangue, fino a ciò che per Shemuel e Wald rappresenta il nodo più critico e a loro più vicino nel tempo (siamo nel 1959) e nello spazio (Gerusalemme): la scelta – giusta o scellerata a seconda dei punti di vista- della nascita dello stato di Israele. Oz ci guida per le strade bagnate ed impervie di Gerusalemme dietro un ragazzotto che vuole svelare il mistero di Atalia, figlia di un attivista politico messo in minoranza dalla Storia, cioè da chi ha voluto che Israele seguisse un destino , come dire, occidentale, e vuole fare luce su un personaggio come Giuda che sempre la Storia ha condannato per sempre.
Ne viene fuori un romanzo dove vittime e carnefici, traditi e traditori, si confondono e dove il consiglio che la sorella di Shemuel scrive al fratello appare forse come l’affermazione più illuminante: smetti di cercare una verità che non esiste e vivi la tua vita.
Angelo Novatzky
LA SCALA DI FERRO – di Georges Simenon
Due avvertenze per i lettori. La prima di carattere generale su Georges Simenon.
Se vi state apprestando a leggere un suo racconto, assicuratevi di avere 3 o 4 ore consecutive libere per completare l’intera lettura del libro: non avreste la forza di staccarvene e rischiereste di dimenticare e mancare ad appuntamenti già fissati nella vostra agenda. Perché la grandezza affabulatoria di Simenon sta proprio in questo: con le 150, al massimo 200 pagine dei suoi racconti non vi impegna molto tempo, ma in quelle pagine c’è un’alchimia tale che leggerne una obbliga a leggere la successiva senza possibilità di interruzione. Un po’ come succede con le ciliegie. Non credo infatti esistano libri di Simenon con le orecchie sulle pagine interne.
Seconda avvertenza, per i maschietti in particolare. Se state vivendo una storia sentimentale nata qualche anno fa dalle macerie del precedente rapporto della vostra partner, e se avete beneficiato prima del tradimento e poi di quella lontana scelta della vostra attuale amata, allora leggete La Scala di Ferro con il dovuto distacco, soffermandovi sugli aspetti stilistici, ma senza farvi mai troppo coinvolgere dalla trama.
Rischiereste di cadere nell’asfittico mondo di sospetti in cui piomba vertiginosamente il protagonista di questa storia, Etienne, che in concomitanza di alcuni suoi inspiegabili malesseri fisici è costretto a ripensare ai 15 anni di matrimonio che lo hanno legato a Louise, una donna matura, calma e sicura di sé già al tempo in cui i due si erano conosciuti nella bottega di cui Louise era ed è proprietaria.
Ed è tra i banconi di quella bottega che Etienne era stato sedotto quando si presentava come un semplice rappresentante di merci mentre di sopra, nell’appartamento collegato al negozio da una cigolante scala di ferro, l’allora marito di Louise si allontanava giorno dopo giorno dalla nuova nascente coppia, fino a sparire.
Proprio quando Etienne crede di potersi godere un rapporto fatto anche di monotonia e routine ma collaudato da una complicità che si esplica soprattutto in quel loro piccolo regno rappresentato dalla camera da letto, cominciano ad insinuarsi in lui dubbi atroci e sembra non essere più in grado di indovinare i pensieri della sua Louise di colei che aveva creduto, o meglio aveva voluto credere essere per lui un libro aperto.
E va aperto e letto questo racconto, di cui spero non avervi svelato troppo, un racconto senza Maigret ma con quella suspense di cui Simenon resta autentico dispensatore.
Angelo Novatzky
LE VERGINI SUICIDE – di Jeffrey Eugenides
Un gruppo di uomini ormai adulti mette su carta, con voce narrante collettiva, il resoconto di un’indagine scrupolosa durata 20 anni.
Una storia iniziata quando avevano tra i 13 e i 17 anni, quando cioè la loro adolescenza veniva irreparabilmente marchiata da una tragedia consumatasi nell’arco temporale di 12 mesi tra le mura di una casa che, nonostante il mistero che dopo 20 anni questi (ex) ragazzi non riescono ancora a sciogliere, poteva essere la loro. E’ la storia di 5 suicidi di 5 sorelle tra i 13 e 17 anni, la famiglia della porta accanto annientata come fosse stata vittima di una sconosciuta epidemia.
L’idea dell’ossessione di questi ragazzi, e di coloro che sono diventati, per le vergini suicide consente ad Eugenides di mettere su carta un romanzo, sulla ineffabilità del presente ma anche del passato, che è un capolavoro. Il rimpianto che scorre lungo tutte le pagine del libro è quello di chi crede di essere rimasto ai margini degli episodi che hanno portato a quei tragici eventi, pur avendo avuto la possibilità di intervenire: come colui che, a pochi metri dallo sventurato che sta per essere investito da un camion sulle strisce pedonali, rimpiange l’opportunità di salvataggio che ha avuto, ma non ha sfruttato per un’inspiegabile indecisione che lo ha colto proprio lì sul marciapiede ad 1 passo dalla tragedia.
Un’ incertezza simile a quella che questi ragazzi adulti provano ancora mentre di fronte ai loro occhi scorrono nelle loro descrizioni tutti i reperti catalogati nei 20 anni delle loro ricerche:
foto, indumenti, oggetti appartenuti alle vittime, ricordi di odori e sensazioni, e le testimonianze di tutti coloro che avevano interagito con le vergini suicide, gli adulti di allora che avevano a quel tempo l’età che hanno loro adesso mentre raccontano; non si sono mai allontanati veramente da quei luoghi eppure solo oggi scoprono in quei testimoni “ volti rugosi e sopracciglia bianche ed indisciplinate”, come se il tempo fosse trascorso a loro insaputa.
Forse il romanzo è il modo per dirci che lo scarto che sempre esiste tra la vita che si vive e quella che scorre nella memoria a distanza di tempo non è mai in fondo una vera e propria soluzione di continuità tra le due perché un certo senso di indeterminatezza (l’intangibilità del presente che sfuma nell’ossessione/mito del passato) rappresenta la cifra per entrambe.
Angelo Novatzky
IL BUIO OLTRE LA SIEPE – HARPER LEE
Se qualcuno vi dicesse così: riuscirai a fare qualcosa di straordinario durante la tua giovinezza, scriverai un romanzo dalla bellezza assoluta per il quale sarai ammirato da milioni di persone nel mondo per il resto della tua vita e anche oltre; il tuo libro diventerà addirittura un testo scolastico, ma – accanto a questa gloria- dovrai sopportare anche la condanna di non riuscire più a ripeterti perché qualunque cosa scriverai dopo questo capolavoro sarà considerevolmente inferiore, inesorabilmente ordinario. Se accetti, firma qui in basso a destra.
Firmereste?
Ciò è più o meno quello che è accaduto – se si esclude la surreale offerta- ad Harper Lee, l’autrice dell’unico libro di successo da lei scritto durante la sua lunga esistenza (è morta a 89 anni lo scorso febbraio): Il buio oltre la siepe.
La trama è di quelle che si prestano alle trasposizioni cinematografiche infatti Gregory Peck negli anni ‘60 del secolo scorso ha dato il volto ad Atticus Finch, il saggio avvocato che nel romanzo della LEE è un vedovo, padre di due bambini: Jem – il maschietto gentiluomo- e Scout, la femminuccia che si comporta come un maschiaccio.
Ed è proprio lei, Scout, la voce narrante: una tredicenne che racconta, con la naturalezza di una ragazza che vede l’irrequieta ed impassibile bambina che è appena stata, la sua infanzia vissuta nel profondo Sud statunitense al tempo in cui – la prima metà del secolo scorso- le persone di colore non erano più i negri con le catene alle caviglie come nei secoli della schiavitù, ma ciononostante ancora vittime del pregiudizio razziale e confinati in un’esistenza di serie B.
Le traversie del padre di Scout, il leale avvocato costretto a sopportare le ostilità della bigotta cittadinanza in cui vive ed esercita la professione perché deciso a salvare dalla pena capitale un negro accusato di violenza carnale ai danni di una bianca, sono il filo conduttore di un libro che non ha tempo. E non ha tempo perché piace e piacerà ai bambini e agli adolescenti di ogni epoca: si rispecchieranno nei pensieri e nelle azioni dei piccoli Scout e Jem, riconosceranno se stessi in quei racconti di piccoli grandi dispetti da bambini, di piccole grandi questioni di principio da difendere in maniera assoluta, senza compromessi.
Ma Il buio oltre la siepe piacerà anche agli adulti di ogni epoca, perché riuscirà sempre a rievocare in loro intuizioni che il tempo ha offuscato, ma di cui si vorrebbe tanto ancora essere capaci.
Harper Lee è riuscita con il linguaggio universale della semplicità nell’impresa di creare il romanzo perfetto che piace e piacerà sempre a tutti; forse per ribellarsi alla condanna dell’unicum di cui si diceva sopra, la Lee ha anche tentato di distruggere l’incantesimo dando alle stampe qualche anno prima di morire la prima stesura del romanzo; ma questa (Va’, metti una sentinella) è un’altra storia.
Angelo Novatzky
ZUCKERMAN SCATENATO – di Philip Roth
Provate a nascere in una buona famiglia di origine ebraica da cui ricevete un’educazione tutta improntata alla migliore tradizione puritana americana impastata con i precetti del Talmud. Con una siffatta struttura di geni e memi cosa ne sarà di voi? Cosa ne sarebbe di voi?
Philip Roth nel suo Zuckerman Scatenato ci profila due credibili scenari: quello di Henry Zuckerman, il figlio che tutti i genitori vorrebbero avere, il figlio che – a dispetto delle proprie ambizioni nel mondo del cinema e del teatro, si piega al volere della famiglia e si convince ad una vita, come dire, tradizionale, con una brava e buona moglie e con un impiego serio e rispettabile. Peccato però se, di tanto in tanto, senta il bisogno di divergere dal prefissato itinerario di rettitudine, sfogando nell’adulterio le sue primordiali vocazioni.
Tutto di un’altra pasta è Nathan Zuckerman, il figlio scatenato che è diventato famoso scrivendo un best seller nel quale ha rinnegato la tradizione ebraica denunciandone le ipocrisie. Peccato però se proprio quel libro è probabilmente la causa della malattia e della morte -di crepacuore- del padre e peccato se la celebrità conseguita con il successo lo abbia sprofondato in una cupa prigione fatta di paranoie e paure.
L’agognata libertà è allora anche per lui soltanto un’illusione, perché Nathan si sente perseguitato e assediato dai suoi stessi fan e da scrupoli mai messi definitivamente a tacere.
Ed è proprio di ritorno dal funerale del proprio padre che i due fratelli tentano di dirsi faccia a faccia come l’altro dovrebbe vivere; Nathan citandogli Cechov: tu dovresti spremerti il servo – il figlio obbediente- dall’anima.
Senza freni invece Henry: …tu sei un bastardo senza coscienza e senza cuore. Cosa significano per te responsabilità, moralità ebraica, abnegazione?
Sui due si staglia Roth che con una buona dose di nichilismo svela in questo racconto il labirinto in cui vaga, vagherebbe, ogni nostra potenziale esistenza.
Angelo Novatzky